PAROLA A RISCHIO

Voce di donna

La donna pagana che convertì Gesù: dal dolore alla lotta per la propria dignità.
Davide Varasi (Comunità di Bose di Ostuni)

In quel tempo, Gesù si ritirò verso la zona di Tiro e di Sidone. Ed ecco, una donna cananea, che veniva da quella regione, si mise a gridare: “Pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio”. Ma egli non le rivolse neppure una parola. Allora i suoi discepoli gli si avvicinarono e lo implorarono: “Esaudiscila, perché ci viene dietro gridando!”. Egli rispose: “Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele”. Ma quella si avvicinò e si prostrò dinanzi a lui, dicendo: “Signore, aiutami!”. Ed egli rispose: “Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini”. “È vero, Signore – disse la donna – eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni”. Allora Gesù replicò: “Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri”. E da quell’istante sua figlia fu guarita. (Mt 15, 21-28)

Chi, nella vita quotidiana, frequenta dei credenti di altre religioni scopre come in questi incontri molto semplici si scenda in profondità. L’incontro prosegue oltre la sua fine; l’altro diventa un ospite interiore. Nel dialogo intimo con questa presenza si approfondisce la percezione del mistero di Dio. Dio si rivela sempre più grande di quello che si pensa e si afferma di lui. Si modifica anche la propria visione dell’umanità. Pierre Claverie diceva: “Scoprire l’altro, vivere con l’altro, sentirlo, lasciarsi anche plasmare dall’altro, non significa perdere la propria identità, rifiutare i propri valori, ma concepire l’umanità al plurale, non esclusiva. Non c’è umanità se non plurale e, quando pretendiamo di possedere la verità o di parlare a nome dell’umanità, cadiamo nel totalitarismo e nell’esclusione. Io sono credente, credo nell’esistenza di Dio, ma non ho la pretesa di possederlo, né attraverso Gesù che me lo rivela né attraverso i dogmi della mia fede. Dio non si possiede. Non si possiede la verità e io ho bisogno della verità degli altri. Lo sperimento ora con migliaia di algerini nella condivisione di un’esistenza e di interrogativi che tutti ci poniamo”. L’incontro, però, spaventa per lo spaesamento che produce. Chiede infatti di uscire dalla bolla religiosa, autosufficiente e protetta, in cui viviamo. Fa crollare le teologie costruite senza la conoscenza dell’altro, in quanto inadeguate rispetto alla realtà. Su di esso pesano poi i conflitti del passato, il timore di perdere la propria identità, gli stereotipi e i pregiudizi sedimentatisi e la pigrizia di non rimetterli in discussione. L’uscita da un mondo piccolo e noto fa paura. È una paura che Gesù ha attraversato e da cui è uscito arricchito, come racconta Matteo (Mt 15,21-28).

Oltre il dolore 

Gesù incontra una donna cananea. “Cananea”, una parola anacronistica, qualifica la donna non solo come pagana, ma come membro del popolo considerato la minaccia più grave e insidiosa per la fede d’Israele, verso il quale non si doveva avere pietà (Dt 20,15-18). Essa chiede aiuto per la figlia malata, ma non è ascoltata. Il contrasto è crudele: da un lato una donna che insiste per essere riconosciuta come soggetto nel farsi carico del dolore della figlia; dall’altro un gruppo di maschi, il maestro con i discepoli, che procede insensibile, al massimo infastidito dall’insistenza di una che intralcia il cammino continuando a gettarsi ai loro piedi. Siamo nella terra del dolore che colpisce in maniera indistinta giusti e ingiusti, ebrei e pagani, uomini e donne. Il dolore non conosce confini, barriere, religioni. Eppure il maestro non è toccato dalla situazione personale della donna; anzi ne fa un motivo per ribadire il senso della sua missione riservata solo alle pecore perdute di Israele e per discettare della sua teologia dell’elezione di Israele che giustifica il rifiuto dell’attenzione verso di lei. Questa tentazione attraversa la storia cristiana: c’è chi urla dal suo vissuto e chiede di essere accolto come soggetto e c’è chi è reso sordo e cieco da una teologia autosufficiente. È l’insidia dell’autoreferenzialità: evitando i sentieri accidentati della frequentazione degli altri ci si condanna alla sterilità. Le domande che nascono dall’incontro con chi appartiene a un’altra religione e con cui si vive insieme sono al servizio della vitalità del cristianesimo.

La donna lotta per essere rispettata come soggetto. Paradossalmente essa lotta anche per Gesù, per la sua umanità. È “un aiuto come di fronte a lui” (Gen 2,18). Il rispetto dell’altro come soggetto è alla base di ogni incontro. Nelle parole di Gesù: “Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cani di casa” (v. 26), la donna trova un varco. Riprende l’immagine dei cani: “È vero Signore e, infatti, i cani di casa mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni” (v. 27). Accetta la prospettiva di esclusa, ma con finezza si dichiara disposta a mangiare solo le briciole, ossia non tutto, ma solo quello che avanza, non consumato dai convitati, e che cade dalla tavola. C’è un’unica casa e un’unica tavola in cui il cibo non è misurato ma sovrabbondate. Restando nel codice linguistico di Gesù gli fa compiere una dislocazione spirituale. Gesù è attraversato da questa frase; il suo particolarismo religioso vacilla. Comincia a interrogarsi su di sé. Grazie a lei egli rilegge criticamente il suo vissuto di fede. Si immerge ancora di più nel mistero del Dio per il quale vive, entrando in una nuova dimensione. Intuisce altrimenti, in maniera dilatata, che cosa significhi che il Padre fa piovere su giusti e ingiusti e sorgere il sole su buoni e cattivi (Mt 6,45): la misericordia divina trascende tutti i confini religiosi. Il Dio di Gesù non fa preferenze di persone: la salvezza che Gesù annuncia deve essere anche per la figlia della cananea, indipendentemente dalla collocazione religiosa.

Dialogo 

Il dialogo diventa così il luogo di un’intelligenza più profonda di ciò a cui ciascuno è chiamato nella propria via spirituale. È quello che scrive il rabbino Philippe Haddad: “L’incontro con la propria trascendenza, con il proprio spazio divino, con il proprio Dio passa per l’incontro con la trascendenza dell’altro, con la sua spiritualità e il suo Dio. L’essere messo sottosopra nella coscienza dall’ascolto, dal silenzio, dalla condivisione rivela una dimensione superiore all’interno della propria fede, quella parte insospettata di sé che diventa visibile grazie alla visibilità dell’altro”. A queste parole fa eco frère Christian de Chergé: “Se gli eventi ci sconvolgono, lasciamoci sconvolgere! Lo Spirito santo è chi fa saltare le frontiere. Saper riconoscere la presenza dello Spirito santo nel cuore dell’’altro’ gli conferisce fascino e fa evolvere e crescere qualcosa in me: ‘Tu non sei lontano dal Regno e hai permesso anche a me di avvicinarmi ad esso’”. Comprendiamo ora la ragione delle scelta del termine “cananea”. Esso rimanda alla Scrittura, ora guardata con occhio diverso. Riconoscere la grandezza della fede della donna significa tornare con occhi critici alla Scrittura e togliere forza ai testi che, negando l’esperienza spirituale degli altri credenti, sono violenti contro di loro. Si disarma un immaginario violento di Dio contro chi è membro di un’altra religione. Proprio grazie a chi, nella Scrittura, è il nemico religioso per eccellenza, Gesù approfondisce la sua fede in un Dio che è misericordia e nel contempo vede questo Dio presente nella fede della donna, che rimane pagana. Cristo disarma l’immagine violenta di Dio proprio lì dove si negava il valore dell’esperienza religiosa dell’altro. Questa nonviolenza è ammissione della propria relatività rispetto a un Dio che non si possiede e del proprio dipendere dagli altri; diventa perciò un criterio della lettura cristiana delle Scritture e di verifica della pratica cristiana nella sua conformità al Vangelo.

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