La guerra fa guerra anche al clima

Il costo climatico delle guerre e del settore militare

Marinella Correggia
Fonte: pubblicato con altro titolo sull’inserto ecologista ET del quotidiano il manifesto del 29 novembre 2018 e nella versione online: https://ilmanifesto.it/militari-di-tutto-il-mondo-in-guerra-col-clima/

“Il settore militare non solo inquina ma contamina, trasfigura, rade al suolo.

Il destino della Terra e del mondo è nelle mani delle armi.

Un concetto impressionante”

Barry Sanders, Green Zone. The environmental costs of militarism

 

C’è chi la chiama carbon bootprint: impronta climatica degli scarponi militari. È l’impatto climalterante di energivori sistemi d’arma, basi e apparati, aerei, navi, carri armati, eserciti; e soprattutto degli interventi bellici veri e propri. Un cappio al collo del pianeta e un vero circolo vizioso, come sintetizzava l’appello “Stop the Wars, stop the warming” lanciato dal movimento globale World Beyond War alla vigilia della Conferenza sul clima di Parigi (2015): “L’uso esorbitante di petrolio da parte del settore militare statunitense serve a condurre guerre per il petrolio e per il controllo delle risorse, guerre che rilasciano gas climalteranti e provocano il riscaldamento globale. È tempo di spezzare questo circolo: farla finita con le guerre per i combustibili fossili, e con l’uso dei combustibili fossili per fare le guerre”.

L’impatto delle attività militari (non solo statunitensi, ovviamente) sul clima è negletto perfino dai movimenti, lamenta Ben Cramer, autore del libro Guerre et paix…et écologie. Sarà così anche alla COP 24 (Conferenza Onu sul clima) che si apre fra pochi giorni in Polonia? Eppure, il rapporto Demilitarization for Deep Decarbonization curato da Tamara Lorincz per l’International Peace Bureau (Ipb) spiega: “Ridurre il complesso militar-industriale e ripudiare la guerra è una condizione necessaria per salvare il clima, destinando le risorse risparmiate all’economia post-estrattiva e alla creazione di comunità resilienti”. Si consideri anche, dice Lorincz, che per avere speranze, “l’80-90% dei combustibili fossili dovrebbe rimanere sottoterra”, dunque “tutto quello che viene estratto andrebbe usato per la transizione a un sistema a zero emissioni, non per i militari”.

Le spese militari mondiali (gli Usa fanno la parte della tigre) sono arrivate a 1,74 trilioni di dollari nel 2017, secondo il Sipri di Stoccolma. Trilioni traducibili in un’enormità di tonnellate di gas serra. Trilioni per distruggere. Meno male che si stampano petrodollari.

Aerei, navi, carri armati, bombe. Secondo il rapporto A Climate of War. The war in Iraq and global warming, i primi quattro anni di pesantissime operazioni militari in Iraq dal 2003 hanno provocato l’emissione di oltre 140 milioni di tonnellate di gas serra (CO2 equivalente), più delle emissioni annuali di 139 paesi. Una stima al ribasso, avvertono gli autori.

Del resto, il bombardiere strategico B-52 Stratocruiser, fa notare la Citizen Climate Lobby, consuma all’ora circa 3.334 galloni di combustibile (un gallone: oltre 3,7 litri). Un carro armato beve meno: in compenso, compatta il terreno e questo non è che uno dei danni delle attività belliche. Non finisce qui: “Il Pentagono è una ragnatela di 1.000 basi all’estero, un arco nero dalle Ande al Nordafrica, dal Medioriente all’Indonesia, ricalcando la distribuzione delle principali risorse fossili e delle rotte commerciali” (Patricia Hynes su Truthout). E nelle basi (10 milioni di ettari ci dice www.energytoday.net, il sito della American Energy Society) si usano energie fossili in quantità. Dell’inquinamento territoriale e atmosferico prodotto dalle basi militari straniere (che sono quasi interamente statunitensi e Nato) in tutto il mondo, si è parlato fra l’altro alla metà di novembre a Dublino alla Prima conferenza internazionale contro le basi militari straniere Usa/Nato, il primo evento internazionale organizzato dalla neonata Campagna globale contro le basi militari Usa/Nato, formata da 35 gruppi.

Insomma, il complesso militar-industriale statunitense è l’imputato principale. Solo 35 paesi al mondo consumano più energia fossile (e quindi emettono più gas serra) di quest’entità.

Pensiamo anche ad altri costi energetico-climatici. Per esempio, per la produzione delle armi. O per la ricostruzione dalle macerie belliche (non certo con la bioedilizia): ricavare un chiletto di cemento significa aggiungere un chilo di gas serra al totale.

L’esenzione del settore militare dagli obblighi di riduzione

Eppure, la maggior parte delle emissioni legate al consumo di combustibili fossili usati dal settore militare è stata esclusa dagli obblighi di inventario e dunque di riduzione stabiliti dagli accordi sul clima. Infatti,il carburante acquistato e bruciato fuori dai confini nazionali (soprattutto in guerra, dunque!) è fantasma. Tutti i sistemi militari escludono i combustibili usati all’estero, ma l’esenzione deriva dall’intensa lobby statunitense durante i negoziati per il Protocollo di Kyoto alla metà degli anni 1990. Per ottenere la ratifica da parte degli Usa (che poi non arrivò!), ne fu accettato il ricatto: “US exempts military from Kyoto Treaty”, denunciava l’agenzia Inter Press Service nel maggio 1998.  Secondo la ricercatrice Lorincz, “nel testo degli Accordi di Parigi non c’è nulla di nuovo”. Nick Buxton, del Transational Institute, aggiunge: “A meno di una pressione massiccia non cambierà nulla, temo”.

Il Pentagono persegue la (propria) resilienza

In realtà, benché il presidente Trump abbia dichiarato che l’effetto serra è un inganno e un complotto dei cinesi, il Pentagono e i militari statunitensi non ignorano affatto i cambiamenti climatici. Come leggiamo su news.mongabay.com, “i militari Usa si preparano per i cambiamenti climatici, non certo per proteggere l’ambiente della Terra, bensì per mantenere l’efficienza operativa – la capacità di combattere”. Così, quando possibile si punta sulle rinnovabili: il Forte Hunter Liggett in California installa a gran forza pannelli fotovoltaici per non rimanere al buio in caso di black-out.

Nelle guerre, il trasporto di combustibile per carri armati, jet e navi è uno dei crucci logistici principali del Pentagono. Il National Defense Authorization Act (Ndaa) per il 2018 firmato dallo stesso Donald Trump si preoccupa della “vulnerabilità delle installazioni militari ai prossimi eventi climatici” e la US Navy ha pubblicato un manuale, Climate Change Installation Adaptation and Resilience Planning, sulle tecniche di resilienza grigioverde. La base di Norfolk, in Virginia, la più grande del mondo, finisce ormai regolarmente allagata, e uno studio della Union of Concerned Scientists (Ucs) prevede lo stesso destino per una ventina di basi Usa costiere sparse nel mondo.

Non cambiamo il sistema insostenibile! Difendiamolo meglio

Ma di certo la macchina da guerra non diventerà verde e sostenibile: lungi dall’affrontare le cause vere del caos e giocare un ruolo nella riduzione delle emissioni, il Pentagono gonfia i muscoli e prevede grandi aumenti nel settore (e quindi più emissioni), per affrontare meglio un mondo destabilizzato dagli eventi nefasti causati dall’eccesso di emissioni climalteranti, appunto.

Del resto, il Dipartimento Usa alla difesa già nel 2004 sottolineava come i cambiamenti climatici siano un “moltiplicatore di minacce alla sicurezza nazionale, suscettibile di aumentare frequenza, scala e complessità delle future missioni militari”. Sempre più necessarie visto che, come si legge nella Quadrennial Defense Review (2010) del DoD, “il caos climatico contribuirà alla scarsità di acqua e cibo, aumenterà le spese sanitarie e potrebbe determinare migrazioni di massa”.

Il libro The Secure and the Dispossessed. How the Military and Corporations are Shaping a Climate-Changed World (Pluto Press) curato da Nick Buxton e Ben Hayes spiega la “convergenza catastrofica fra militarismo, neoliberismo e cambiamenti climatici” illustrando le strategie del settore militare e delle multinazionali per gestire i rischi (anche con la geoingegneria che pretenderebbe di attenuare gli effetti del riscaldamento globale senza la necessaria drastica riduzione delle emissioni). Il fine è proteggere pochi in nome della sicurezza escludendo i non privilegiati. In barba alla giustizia climatica, visto che (si veda sul sito www.globalcarbonproject.org) i grafici sulle emissioni cumulative di gas serra dal 1870 al 2016 indicano con chiarezza le schiaccianti responsabilità storiche dell’Occidente nel disastro climatico.

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