Non più complici
Per non essere più complici dobbiamo ritrovare voce e diventare strumento di riscatto e di comunità.
L’accostamento tra nonviolenza e contrasto alle mafie ha camminato come un fiume carsico: quando si nasconde, non muore ma si arricchisce di nuove falde per poi riemergere in tutta la sua potenzialità.
Nel saggio di Guglielmo Minervini si sottolineava l’insufficienza dell’azione giudiziario-repressiva e le potenzialità di azioni nonviolente dal basso per una efficace lotta alla mafia.
Sento tutta la riconoscenza e la responsabilità di rilanciare oggi questo tema che Guglielmo aprì con coraggio nel 1992, due mesi prima della strage di Capaci. Seguirono due convegni, nel 1993 e nel 1994, Mafia e nonviolenza a Castellammare di Stabia e Non più complici a Molfetta. Conobbi Guglielmo in quegli anni: desiderava conoscere quello che si muoveva a Palermo, in particolare l’esperienza delle donne del digiuno che avevano organizzato un’azione nonviolenta a Piazza Castelnuovo.
Una decina di anni dopo, si cercò di sistematizzare la riflessione su questo tema. La rivista Quaderni Satyagraha pubblicò un mio saggio, si costituì un gruppo di studio, pubblicammo il libro Nonviolenza e mafia. Idee ed esperienze per un superamento del sistema mafioso e si organizzò un convegno nazionale.
Oggi, dopo quindici anni, la riflessione riprende e con qualche novità: le azioni di resistenza e le pratiche sociali che sono sviluppate, arricchendo la storia della nonviolenza italiana, rendono la riflessione più interessante perché riconnettono i fili del nostro desiderio intimo di liberazione dalle mafie con alcuni segnali – ancora embrionali ma significativi – che giungono dall’interno dei sistemi mafiosi.
Tanti sono i contributi che possono riaprire il dibattito che certamente avranno accoglienza in altre sedi. È stato difficile selezionarne solo alcuni per questo dossier.
Dopo l’articolo di Guglielmo, ci è sembrato importante partire da un angolo visuale femminile. Infatti le storie e le voci che finalmente emergono anche dall’interno dei sistemi mafiosi, come quella straordinariamente significativa narrata da Giuseppe Cimarosa, hanno sempre delle donne come soggetti significativi.
Rossella Caleca e Gisella Modica, della rivista Mezzocielo, ci dicono dell’apporto del pensiero e dei vissuti femminili nella storia di resistenza alle mafie.
Con Giusy Cannizzaro, psico-terapeuta che lavora sul doppio binario delle storie di persone e di comunità, abbiamo parlato delle possibilità di fuoriuscita consapevole dalle mafie.
Le mafie ci erano sembrate per tanto tempo, infatti, capaci di annientare l’emergere di una coscienza autonoma al loro interno. Con lei abbiamo toccato con mano la sofferenza e la morte di cui la mafia si fa portatrice non solo con l’assassinio, ma con sistemi subdoli che intaccano la dimensione più intima delle persone, impedendole parola.
La sofferenza che ne deriva, alla quale non ci si può sottrarre, può tuttavia condurre, se sostenuta da comunità sensibili e competenti alla libertà e all’empowerment.
Con la pazienza di bravi maieuti, essa può trovare voce e diventare strumento di riscatto personale e di comunità.
Su questo filone Filippo Gravagno e Giusy Pappalardo aprono a una dimensione poco esplorata, in cui territorio e comunità non sono più visti come contenitore e contenuto.
Partendo dal termine “eco socio sistema”, essi ci svelano che le riflessioni sulla nonviolenza e la mafia, messe a punto nel nostro libro del 2005 con l’immagine di Danilo Dolci in copertina, sono state in mano agli studenti di Ingegneria e Scienze dell’educazione di Catania a partire dal 2015…
Insomma il fiume carsico può procedere e forse arriverà, con altri torrenti, in quel mare in cui la mafia non avrà più niente da dire…