La lunga guerra
Il petrolio nelle guerre di quell'area, gli interessi occidentali, i crimini umanitari in Siria.
E l’impegno sul campo di un'ong italiana in difesa delle vittime.
C’è una immagine che parla più di mille parole. Il lancio di patate e pomodori sul convoglio dei militari Usa che abbandonano la città curda di Qamishio lasciando i loro abitanti alla merce dei tagliagola jihadisti alleati dei turchi. “I curdi non sono angeli” aveva sentenziato Trump dalla sua poltrona nello studio ovale. Di tutte le ritirate delle forze Usa questa è forse la più ingloriosa, tanto da diventare ancora più imbarazzante alla luce della decisione presidenziale di lasciare in Siria un drappello di uomini. Ma non per difendere i civili, ma per mettere in sicurezza i pozzi di petrolio. Come dire: l’oro nero vale più delle vite delle persone.
A ben pensarci è esattamente su questo che in Medio Oriente, dopo il crollo del Muro di Berlino, era cominciata la lunga sequela di guerre sanguinose scatenate dall’Occidente. Mettere le mani sulla giugulare del petrolio, nel 1991 quella che passava dall’Iraq, infliggendo alla popolazione pene atroci fatte di bombe, missili intelligenti, mine, esplosioni all’uranio impoverito e al fosforo bianco. Una, due guerre, in mezzo un embargo che volutamente non distingueva tra il dittatore e la popolazione ridotta alla fame e alla morte per malattie curabili.
La guerra del petrolio appunto. Anzi la sporca guerra del petrolio come la definirono i pacifisti. Non è ancora finita. Si è arricchita di gas e di terre da sottrarre ai nativi. In mezzo ci sono i pozzi dell’odio che sono cresciuti nel risentimento e nella frustrazione della popolazione umiliata. Pozzi d’odio sul quale è prosperato l’estremismo dei fondamentalisti, da Al Qaeda all’Isis (Daesh), rendendo il mondo intero più instabile ed insicuro.
“Un Ponte Per...” nacque dentro quel conflitto. La inventammo come istituzione di movimento, per dare alla società civile un presidio e un intervento permanente. Con una scelta di campo: stare sempre dalla parte delle vittime delle guerre. Pensate allora alla nostra angoscia, quando abbiamo dovuto decidere davanti all’offensiva turca nel Nord est della Siria (NES) di ritirare il nostro personale internazionale e italiano da quel contesto. Unica ong italiana che dal 2015 ha lavorato fianco a fianco con la sperimentazione politica e sociale del Rojiava.
Confederalismo democratico e includente, protagonismo delle donne, formazione di municipi plurietnici e gestiti con la partecipazione popolare. E ancora laicità contro fondamentalismo e costruzione di un servizio sanitario pubblico e universale come leva di uno sviluppo che metta al centro i diritti delle persone.
Tutto questo è saltato per aria il 9 ottobre. Con il reparto di maternità che avevamo costruito e ora finito sotto le bombe. Con le nostre ambulanze e del nostro partner, la Mezzaluna Rossa Curda, diventate target dell’aviazione di Erdogan. Abbiamo dovuto spostare la nostra centrale operativa a Dohouk , nel Kurdistan iracheno a pochi chilometri dal confine siriano. Sul terreno rimane il nostro staff locale e il nostro partner. Con la tregua dei cinque giorni siamo riusciti a portare in salvo centinaia di feriti e a dare un primo sostegno ai civili in fuga. La guerra però bussa ancora alle nostre porte. Il sultano di Ankara non si accontenta del sangue curdo e arabo versato. Ne vuole ancora di più.
Erdogan d’altronde ha imparato dall’Occidente. L’invasione della NES è stata battezzata “Fonte di pace”. Una bestemmia. Così come erano bestemmie, i termini “guerra umanitaria” con cui i nostri governanti cercarono di abbellire le guerre scatenate dai Balcani alla Mesopotamia. È storia recente. Ma l’ossimoro di mettere insieme “guerra” e “umanità” ha fatto proseliti. La fascia di sicurezza di cui parla il rais di Ankara ha un altro nome: sostituzione etnica.
È un crimine contro l’umanità e consiste nel costringere alla fuga chi vive in quelle terre da secoli e sostituirle con i milioni di profughi siriani già fuggiti dalle altre parti della Siria. Un girone dantesco. Profughi che prendono il posto di altri che diventeranno profughi anch’essi quest’ultimi cacciati verso l’Iraq o nelle braccia di Assad. Già Assad, il presidente siriano contestato nel 2011 dalle manifestazioni di piazza e finite dentro la morsa della repressione da un lato e dei gruppi jihadisti dall’altro. La primavera schiacciata dalla guerra per procura delle grandi potenze mondiali e regionali. Russia, Iran, Hezbollah, Israele, Usa, Francia e Turchia, tutti attori esterni che si muovono nella stessa logica delle potenze coloniali di un secolo fa.
Come allora è il popolo curdo a essere letteralmente fatto a pezzi: in quattro stati (Iran, Iraq, Turchia e Siria) e sotto le bombe.
A spingere alla guerra Erdogan è stata la crisi economica che, nonostante lo stato d’emergenza proclamato dopo il fallito golpe del luglio 2016, ha cominciato a far franare il consenso verso il suo regime. La perdita del comune di Istanbul – elezioni perse, elezioni annullate ma poi riperse ancora clamorosamente – è qualcosa di più di un campanello dall’allarme. La guerra è la benzina che serve per rinfocolare il nazionalismo più gretto e capace di mettere a tacere il dissenso. D’altronde nell’informazione a senso unico i curdi sono equiparati ai terroristi. Per questo i loro sindaci – come quello di Diyarbakir – vengono prima commissariati e poi arrestati.
La paura regna in Turchia e come ai tempi di Mussolini anche agli atleti è richiesto di salutare romanamente il regime e benedire la guerra. Il saluto del soldato fatto dai calciatori turchi è una ferita per lo sport che è nato per unire non per dividere i popoli. Ma la guerra uccide la ragione e riduce tutto a propaganda.
Dell’Europa, del suo balbettare davanti all’invasione turca , possiamo solo parlare della sua triste assenza. Anche quando dice che varerà un embargo sulle armi non parla delle armi già in costruzione ma dei contratti futuri. Eppure potrebbe fare molte cose come chiedere una no fly zone al Consiglio di Sicurezza dell’Onu o imporre ad Italia e Spagna di ritirare i loro contingenti al confine siriano e le batterie di missili antimissile dislocati a difesa dello spazio aereo turco. La fedeltà alla Nato evidentemente vale più alla fedeltà ai valori democratici del ripudio della guerra.
E allora che fare? Le società civili europee hanno dimostrato quella gratitudine verso il popolo curdo che i loro governi hanno invece agito solo a parole. Lo ha fatto mobilitandosi: manifestazioni, dibattiti o con la decisione di boicottare i prodotti made in Turchia. Noi di Un Ponte Per.. lo abbiamo fatto anche chiedendo a tutti e tutte di dare un sostegno economico alla Mezzaluna Rossa Curda aprendo una sottoscrizione all’Iban Bancario IT09 T050 1803 2000 0001 1007 903 e il conto corrente posta n.59927004. C’è bisogno di tutto nella Siria del Nord Est. C’è bisogno in particolare di umanità. Quella che vogliono uccidere dentro ognuno di noi abituandoci a considerare la guerra una cosa normale.