Alta marea
Come nasce il progetto del Mose?
Perché è in ritardo? Quali alternative?
Lo scorso 12 novembre, come già il lontano ma rivelatore 4 novembre del 1966, ha visto intrecciarsi a Venezia un singolo evento distruttivo, e la crisi strutturale dell’ecosistema lagunare, frutto malsano delle gravi manomissioni subite nel corso del Novecento (interramenti, scavi di nuovi canali, stravolgimento del regime idrodinamico e geologico) e degli effetti locali della crisi globale dell’ambiente e del clima. Le due dinamiche – eventi eccezionali e mutamenti fondamentali, meteo e clima, marea ed ecosistema – vanno sempre più di pari passo e Venezia, che, sul filo del mare, li subisce direttamente e precocemente, lo va anche rivelando al mondo con spaventosa chiarezza.
A questo rischio cruciale, le istituzioni italiane, in primis la regione Veneto e lo stato (il comune votò contro tale scelta, ma oggi il sindaco Brugnaro, di centrodestra, è a favore), hanno risposto puntando tutto sulla macchina enorme chiamata Mose, dispositivo complesso e ormai invecchiato (è stato pensato negli anni Ottanta, progettata a partire dagli anni Novanta, messa in cantiere nei primi anni Duemila, con la prima pietra posata da Berlusconi nel 2003).
In alta marea
Anche in questi giorni di alta marea e di devastazioni, il solo grido che si è levato da parte di amministratori e di politici è stato il lamento per i ritardi nel completamento dell’opera. Ma, dobbiamo ripetere, il Mose non è “in” ritardo: il Mose è “il” ritardo, l’errore storico che sta lasciando tuttora Venezia esposta al rischio più letale della sua storia. Si susseguono, infatti, le previsioni sull’allagamento non solo dell’intera città, ma della stessa prima fascia costiera, dell’entroterra vasto, entro i prossimi decenni. Esattamente l’opposto di quanto previsto da chi ha voluto il Mose, progettato immaginando un innalzamento medio del mare dovuto quasi solo a effetti locali (per circa una ventina di centimetri) e minimizzando quelli globali, circa il doppio o il triplo di quelli previsti dai fautori del Mose, i quali immaginavano di dover azionare le dighe mobili solo pochi giorni l’anno per qualche ora ogni volta, evitando così di far ristagnare la laguna, interrompendone lo scambio vitale e indispensabile con il mare, e anche di stroncare le attività portuali: questi sarebbero gli obiettivi del Mose, il motivo per cui le dighe sono mobili, non fisse (al quale si è aggiunta la complicazione di volerle “a scomparsa”, immerse sott’acqua, incernierate sul fondo delle tre bocche di porto di Lido, Malamocco, Chioggia, quindi esposte a corrosione, insabbiamento, ecc.).
In realtà, invece, i mutamenti dell’ecosistema locale (subsidenza, eustatismo specifico, manomissioni della laguna che ne hanno ridotto la superficie e quindi l’area di espansione delle maree) e del clima globale producono alte maree più frequenti e potenti, così il Mose, se fosse operativo, finirebbe per essere troppo utilizzato, interrompendo l’apertura tra mare e laguna troppo spesso, compromettendo ecosistema lagunare e porto.
Sulla effettiva possibilità che il Mose funzioni, però, il pessimismo sta col tempo aumentando, tanti sono i difetti che stanno emergendo (corrosione, ruggine, sabbia negli ingranaggi, vibrazioni, tenuta dubbia delle saldature e dei meccanismi…), insieme ai costi enormi della manutenzione (almeno cento milioni l’anno) che non è chiaro chi pagherà (né chi sovrintenderà al funzionamento).
Era una scelta inevitabile, quella del Mose? Non lo era per niente, anzi. Nel 2006 il comune di Venezia guidato dal sindaco Massimo Cacciari, che avversava questa scelta proprio per i motivi appena ricordati, promosse una mostra, una serie di incontri e poi un volume su almeno una decina di alternative emerse nel tempo e più in linea con quanto prescritto dalla legge speciale per Venezia (1973 e poi 1984), che prevede per la salvaguardia della città e della laguna interventi “graduali, sperimentali e reversibili” (l’esatto opposto del Mose).
Queste alternative (tra le quali, sistemi flessibili di paratoie a gravità, sbarramenti mobili, apparecchiature removibili ecc., combinati con interventi di riequilibrio strutturale dell’ecosistema, con rialzi dei fondali e del terreno su cui poggia la città, ripristino della morfologia, potenziamento dei litorali e restringimenti maggiori delle bocche di porto ecc.) vennero proposte al governo che, come scrive uno dei maggiori esperti di idraulica lagunare, il prof. Luigi D’Alpaos, con superficialità e sbrigatività le escluse a vantaggio del prescelto Mose (si veda, L. D’Alpaos, S.O.S. Laguna, Mare di Carta 2019), l’unica grande opera, forse, approvata pur avendo subìto una Valutazione di Impatto Ambientale negativa (e con il voto contrario della città, cioè del comune, alla quale era destinata: in una riunione finale e decisiva del comitato interministeriale che deliberò il definitivo via libera al Mose, il comune di Venezia con il sindaco Cacciari, votò contro, unica istituzione a farlo).
Ma ora, giunta l’opera quasi a conclusione (i lavori sono a più del 90% di avanzamento) che fare del Mose “quasi finito” (e costato finora 5, 3 miliardi, di cui uno circa di tangenti, su una previsione finale di 5,5 ma in crescita, come le maree)? Intanto, se si volesse verificarne l’affidabilità, andrebbero corretti i difetti finora emersi, sempre che sia possibile. Poi, ne andrebbe valutata la funzionalità generale finale, senza far sperimentare ai veneziani, come cavie, l’eventuale messa in funzione “dal vivo”, visto anche, tra l’altro, che gli interventi (scavi e opere in cemento) per le paratoie alle bocche di porto hanno cambiato e reso più veloci le correnti.
Quindi, ne andrebbe almeno considerato il possibile adeguamento al nuovo quadro climatico e ambientale, mentre certamente andrebbe ripresa l’opera di riequilibrio e rigenerazione dell’ecosistema lagunare (a cominciare dall’approvazione di un adeguato piano morfologico da lungo tempo atteso e dalla ripresa sistematica dello scavo dei rii, per far meglio circolare l’acqua, il ripristino di livelli corretti dei fondali alle bocche di porto e nei tratti più profondi della laguna, la ripresa dei piani di rialzo delle rive e delle insule, ecc.: le vere opere fondamentali, oltre a evitare di scavare nuovi canali o approfondire quelli esistenti per far passare le grandi navi da crociera, che vanno estromesse dalla laguna). Andrebbe anche superata la gestione commissariale del Consorzio Venezia Nuova, organo magari ormai da sciogliere, ripristinando una dialettica trasparente e virtuosa tra istituzioni, organi dello stato, imprese.
Ma è più probabile che, a una disamina onesta e competente, ove mai si facesse, il Mose risulti piuttosto essere un altro problema, invece che la soluzione epocale alla sfida che Venezia sta vivendo, e che annuncia già e chiarisce la sfida radicale che il mondo intero deve affrontare.