Occhi di donna
La vera pace può essere solo una pace disarmata: con questo enunciato potente e lucido si è espresso papa Francesco a Hiroshima (novembre 2019). C’è un disarmo – lo sappiamo bene – che compendia e al tempo stesso oltrepassa la dimensione militare: un disarmo integrale, da assumere come compito esistenziale, che ci convoca tutti e tutte, donne e uomini. Ma non allo stesso modo, perché non in modo eguale gli umani sono attori e responsabili dei terrificanti disastri compiuti nel teatro della storia. Nel mondo sono esistiti ed esistono rapporti di dominio che rivestono le forme del razzismo, del pregiudizio etnico, del neo-colonialismo, delle diseguaglianze economiche e della prevaricazione sessista. Non è legittimo obliare nessuna di tali categorie: ma ahimè quella del dominio sessista è quasi sempre resa irrilevante, anche da parte di chi si schiera con gli/le oppressi/e.
“Con convinzione desidero ribadire che l’uso dell’energia atomica per fini di guerra […] è immorale, come allo stesso modo è immorale il possesso delle armi atomiche […] La vera pace può essere solo una pace disarmata”, aveva affermato il Papa sempre in quel discorso denso di pathos, evocando lo strazio per il dramma epocale consumatosi in quella terra.
In questo scritto, metterò in circolo la questione dell’ambiente e del nucleare con l’oscuramento delle soggettività femminili nel discorso pubblico e nel discorso teologico comune; il legame che accomuna tali temi con quello delle relazioni inique dei sessi/generi viene per lo più ignorato.
Nell’esergo del suo libro Gaia e Dio, la cui prospettiva è la teologia ecofemminista, la teologa cattolica R. Radford Ruether scrive che l’opera è dedicata ad Adiba Khader, alle sue quattro bofiglie, a tutte le altre madri e ai/alle figli/e che morirono all’alba del 13 febbraio 1991 in un rifugio di Baghdad distrutto da due “bombe intelligenti” americane. Il nesso tra tali ordigni e le depredazioni ambientali mi ha sospinto a rivisitare il carteggio tra il filosofo ebreo tedesco Günter Anders e Claude Eatherly, il maggiore che partecipò alla missione del bombardamento di Hiroshima.
Anders focalizza la sua attenzione nonché la sollecitudine fraterna per quell’uomo che, dopo il gesto fatale, non è riuscito più a ritrovare la pace. I rimorsi di coscienza che lo abitano vengono subdolamente interpretati dalle gerarchie militari come sintomi morbosi di una coscienza fragile. Eatherly disarticola il tipo militare, che con lui viene deviato dai canoni virili classici. Viene allora espropriato del suo diritto al pentimento e destituito di autorità nel suo impegno per il disarmo. Nello scambio epistolare, Anders suggerisce: come rotelle di una macchina, possiamo essere inseriti in azioni di cui non prevediamo gli effetti. La tecnica ha fatto sì che possiamo divenire incolpevolmente colpevoli.
Sviluppo integrale
Tra l’enciclica Laudato si’ e il lavoro di Anders si coglie una “simpatia” sostanziale. La consonanza con la frase appena citata emerge con forza al n.105 dell’Enciclica. “Il fatto è che l’uomo moderno non è stato educato al retto uso della potenza perché l’immensa crescita tecnologica non è stata accompagnata da uno sviluppo dell’essere umano per quanto riguarda la responsabilità”.
Esistono sfumature tra le due formulazioni, ma entrambe pongono l’accento su un vuoto coscienziale di cui l’uomo moderno è emblema. Ma, nelle argomentazioni dei due autori, qualcosa di essenziale non emerge. La tecnica, infatti, è un sapere che è figlio – e non poteva essere diversamente – di una cultura che ne è la genitrice, e in essa l’egemonia appartiene a un genere, quello maschile. Se la tecnica ha reso gli uomini incolpevolmente colpevoli, ora, coloro che coraggiosamente portano alla luce tale verità, ne nascondono, meno coraggiosamente, un’altra; quella stessa tecnica ha un sesso: quello maschile. E l’uomo moderno non un soggetto neutro universale usato impropriamente per dire l’umanità.
Con la ricezione e meditazione sulla Laudato si’, molti cuori sono stati allargati e riscaldati: in essa albergavano concetti e sensibilità che, come in un amoroso incontro, s’intrecciavano con consapevolezze maturate nelle esperienze nella sfera civile e in comunità animate da una fede profetica. Ai miei occhi, poi, innegabili appaiono le parentele tra l’humus dell’enciclica e i tanti dei nuclei tematici del pensiero/pratiche delle donne; nell’opera di Francesco si respirava infatti quella riflessione in simbiosi con la vita, che è cifra del pensiero femminista. Ma tale parentela, benché brulicante nel sottosuolo del testo, è completamente disconosciuta en plein air. Anche i commenti più “accreditati” ignorano convergenze vissute per lo più come imbarazzanti.
Superfluo ricordare quanto l’enciclica sia un documento di superba bellezza: si respira il soffio robusto dell’aria pura dei Vangeli. Essa scandaglia la materia con una prospettiva olistica, radicale, niente affatto riduzionistica; fa attenzione ai processi fisici, biologici ed economici dell’ambiente; al tempo stesso dilata gli orizzonti di senso, in una sinfonia di risonanze al diapason col cuore dell’umanesimo. Da un lato, infatti, mette in luce le angustie dei criteri epistemologici dei saperi dominanti, e le logiche di potere che governano i sistemi sociali; dall’altro, accompagna con l’intelligenza del cuore alla presa di coscienza di quelle strutture di peccato che si chiamano: individualismo, etnocentrismo, colonialismo, scientismo e feticismo tecnologico, primato della finanza, ricerca del profitto, idolatria del progresso, estrattivismo, accaparramento, commercializzazione, manipolazione dei beni comuni, ecc.
Il femminismo, quando si è occupato della disciplina ecologica, l’ha indagata con occhi nuovi, a partire dall’evidente parentela che tale universo intratteneva con il dominio dei sessi/generi; ha disvelato insomma il nesso strutturale tra l’oppressione della donna e lo sfruttamento delle risorse della Terra. C’è un’impressionante analogia anche nell’uso di termini nei due campi: depredare, violare, sfruttare, perforare. Ma la cultura egemone (e quella ecclesiologica/teologica non fa eccezione) è rimasta sorda. Un deficit che è rispuntato nel documento magisteriale considerato.
Della consonanza di approcci che accomuna le posizioni dell’ecofemminismo e l’enciclica si potrebbero fornire molteplici esempi: al n.98 si parla di dualismi malsani che hanno deformato il Vangelo; al n.216, si dice che “la spiritualità non è disgiunta dal proprio corpo”. Quanto i dualismi (mente opposta al corpo; ragione opposta a sentimenti; spirito opposto a materia; res cogitans opposta a res extensa, ecc.) e quanto una risignificazione del corpo stiano da decenni oramai al cuore della riflessione di donne non necessita, credo, di essere riaffermato. Ma si rimane amareggiate/i quando tale accordo ermeneutico (su molte questioni), che poteva costituire un mattone per costruire uno di quei ponti tanto cari all’enciclica, viene vanificato.
Limiti e stereotipi
Cosa dunque è assente in quelle pagine? La presa in carico di quanto “l’iniquità planetaria” abbia un responsabile sessuato, e quanto il “sogno prometeico di dominio sul mondo” abbia un sognatore che ha il volto del maschio; una lingua inclusiva; la legittimazione di una ricerca intellettuale ed etica eco-femminista (benché il testo sia prodigo di vastissimi riconoscimenti).
Quale visibilità femminile c’è in qu,.elle pagine? È citata una sola donna, santa Teresa di Lisieux, la quale “ci invita alla piccola via dell’amore, e a non perdere l’opportunità di una parola gentile” (n.230). Sorge il dubbio che l’espressione usata, riconfermi lo stereotipo; la parola donna appare una sola volta, al n. 162, in questo contesto: “L’uomo e la donna del mondo postmoderno corrono il rischio permanente di divenire profondamente individualisti….”.
La cultura patriarcale è talmente pervasiva che per lo più non la si riconosce: chi la agisce può esserne incolpevolmente colpevole. Considerazioni analoghe, però, si potevano avanzare negli Usa degli anni Settanta a proposito della cultura razzista. Ed ecco come si espresse M. L. King a proposito: “Può darsi che non siate responsabili per la situazione in cui vi trovate, ma lo diventerete se non farete nulla per cambiarla”: per non tramutarsi in colpevolmente colpevoli.