POLITICA

Venti di guerra

Dalle tragedie mediorientali una sfida per l’Europa che vogliamo.
Norberto Julini (Consigliere nazionale di Pax Christi)

Che due capi di governo sotto accusa e sotto elezioni, come Netanyahu e Trump, decidano di generare il caos e di mobilitare le rispettive pubbliche opinioni evocando lo spettro della minaccia e della guerra, è un gesto criminale e tragico, gravido di conseguenze. Sopprimere il comandante di un’operazione militare che ha costruito e mantenuto la cosiddetta “mezzaluna sciita” che corre da Teheran a Beirut, senza essere riusciti a demolirla, è un’implicita ammissione di sconfitta. Una sorta di rappresaglia sulla via della ritirata.

Un primo risultato è che l’Iraq rimane un paese a guida sciita, impegnato a trovare il giusto equilibrio con il potente vicino iraniano, ma a non discostarsi più di tanto dalla politica ostile all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti, un tempo conosciuti come “costa dei pirati” e oggi alleati, di fatto, di Israele, superpotenza innestata nel cuore storico del mondo arabo senza diventare mai un paese mediorientale. La contesa con il sunnismo wahabita, generatore della regressione sanguinaria che ha prodotto la distopia del Califfato, proclamato a Mossul da Al Baghdadi nel 2014, e con il sionismo fondamentalista, rimane aperta e ancor più esasperata.

Soleimani iraniano e Muhandis iracheno sono stati decisivi nello sconfiggere proprio l’Isis in Iraq e in Siria insieme ai curdi e hanno pagato con la vita l’effimera collaborazione con gli americani in quella rovinosa vicenda.

La decisione di Trump di compiere l’assassinio dei comandanti sciiti, a pochi giorni dall’assalto di militanti sciiti all’ambasciata americana di Baghdad, è altresì sfogo di antichi risentimenti che rimandano ai fatti del 1979 e alla rivoluzione khomeinista, nonché alle pressioni dei fondamentalisti cristiani che circondano il presidente americano e che sono ancor più di Trump asserviti alle ingiunzioni israeliane di esercitare la massima pressione su Iran per interferire sulle sue vicende interne e provocare un cambio di regime.  

Ma, come spesso accade, le reazioni sproporzionate e improvvide degli americani hanno esiti sfavorevoli per loro stessi e per quanti si ostinano a stare al loro fianco in queste pericolose avventure. C’è del paradosso in tutto ciò.

La tendenza di medio periodo è, infatti, che Usa e Iran siano destinati a trovare un accordo. Scriveva lo stesso Henry Kissinger già nel 2001: “Ci sono pochi paesi al mondo, oltre all’Iran, con cui gli Stati Uniti hanno meno motivi di disputa o interessi più compatibili”. Se così non fosse, c’è la Cina che si appresta a sostituirli nei porti commerciali e militari del Golfo Persico.

Iran 

Geografia, risorse e talento della giovane popolazione iraniana, erede consapevole di cultura millenaria, irradiata attraverso l’impero più antico della storia, fanno dell’Iran uno stato sostanzialmente diverso da emirati e petromonarchie o satrapie familiari creati artificialmente dalle potenze coloniali europee un secolo fa, la cui unica preoccupazione è reprimere ogni aspirazione democratica dei loro popoli e destabilizzare quei paesi vicini dove germinali esperienze democratiche facessero le loro  prime prove di governo.

La storia delle relazioni Usa-Iran, e addirittura Israele-Iran, è fatta di minacce scoperte e trattative coperte, continuate anche dopo la rivoluzione guidata dall’ayatollah Khomeini nel 1979, perfino durante la guerra per procura dell’Iraq di Saddam contro l’Iran dal 1980 al 1988, quando americani e israeliani armavano i pasdaran. 

Ora ci tocca subire quello che autorevoli osservatori hanno definito un vero e proprio “vandalismo diplomatico” da parte di Donald Trump, ossessionato dalla volontà di distruggere quello che i suoi predecessori hanno costruito: in questo caso l’accordo sul nucleare iraniano del 2015, forse il più importante risultato conseguito dalle Nazioni Unite dall’inizio degli anni duemila.

Un accordo sbrigativamente definito “iraniano”, ma in realtà una sorta di “trattato di Westfalia” mediorientale, simile a quello che nel 1648 pose fine alle guerre di religione che avevano spopolato l’Europa. Un trattato destinato a dire che in quel quadrante geopolitico è necessario stabilire un equilibrio di potenze, basato su almeno quattro “grandi”: Turchia, Iran, Egitto, Arabi del Golfo. Con Israele, a cui viene riservato il monopolio dell’arma nucleare per garantirne la “sicurezza” e porre lo stato ebraico in condizioni di trovare, se e quando lo volesse, la soluzione alla questione palestinese, senza doversi guardare alle spalle e con buoni motivi per liberarsi dalla sindrome d’assedio. A quel trattato, io credo, si dovrà tornare e fa bene l’Europa a continuare a riconoscerlo ancora come valido. 

Ruolo europeo

È già in corso una nuova stagione di rivolte per il pane, per il lavoro, per la dignità, simili a quelle che nel 2011 chiamammo “primavere arabe” e che oggi sembrano superare le stesse appartenenze religiose, ritenute dai manifestanti strumenti della conservazione di una condizione sociale iniqua.

Scrivo all’indomani della conclusione della Conferenza di Berlino sulla Libia del 19 gennaio, che è giunta tardiva nel tentativo di regolare le interferenze di Russia e Turchia, nuovi protagonisti della politica mediterranea e interessati fornitori di risorse energetiche, oltreché avventurieri in cerca di nostalgiche fortune imperiali da vendere alle proprie opinioni pubbliche interne, preoccupate da crisi economiche difficili da superare.

Non sappiamo come andrà a finire, ma è un’ importante rivendicazione di ruolo europeo, per ora a trazione tedesca.

In presenza del progressivo disimpegno statunitense dallo scenario mediorientale, dove Israele viene lasciato a spadroneggiare nella convinzione di Trump e accoliti che gli interessi dei due Stati coincidano, l’Europa può far valere un peso negoziale importante se sarà capace di liberarsi delle proprie pratiche neocoloniali.

È necessario che superi l’eurocentrismo energivoro, che subordina il rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale al soddisfacimento del fabbisogno energetico e che sappia stabilire con i paesi del nord Africa e del levante scambi equi e diversificati, basati sul reciproco rispetto, senza interferire nelle vicende politiche interne, creando invece condizioni socio-economiche favorevoli a esperienze democratiche che il Medio Oriente ha già conosciuto nel corso del Novecento e che l’Occidente ha sempre sistematicamente destabilizzato. Valga per tutti il colpo di stato che proprio in Iran destituì il governo democraticamente eletto di Mossadeq nel 1953.

L’Europa sarà capace di sviluppare una politica per il Mediterraneo e il suo entroterra, che sia coerente con i solenni impegni assunti fin dal 1995 a Barcellona con il programma di partenariato euro-mediterraneo politico, economico e culturale?

L’Europa, che si dice ancora cristiana, dovrebbe con lungimiranza far proprio l’impegno alla “conversione ecologica” che papa Francesco ha voluto porre accanto a dialogo e riconciliazione nel messaggio per la 53ma Giornata della Pace il 1° Gennaio 2020. È, infatti, tale “conversione” il presupposto etico , politico ed economico per riprendere il processo di Barcellona.

Di questa “conversione” è parte rilevante anche il capitolo del commercio delle armi, ripetutamente ribadito da papa Francesco come immorale e foriero di conflitti apparentemente indomabili come quelli in corso dalla Libia alla Siria e allo Yemen. Commercio che vede l’Italia complice e connivente in affari tanto  lucrosi quanto generatori di crimini contro l’umanità. 

Se dopo aver ripudiato la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali, come recita la nostra Costituzione, non saremo coerenti nel ripudiare pure il commercio delle armi, fornite ai despoti mediorientali per tenere assoggettati i popoli e alle innumerevoli milizie prezzolate da occidentali, da russi, da turchi come strumento per prolungare il predominio neocoloniale o riattivare egemonie imperiali e per avvantaggiare con produzioni e guadagni immorali le economie in crisi, noi europei otterremo precari vantaggi nel presente, ma perderemo il nostro futuro.

Si dirà che un comportamento virtuoso degli europei, lascerebbe campo libero ad altri belligeranti. Non possiamo dirlo, perché finora questa politica virtuosa l’Europa non l’ha ancora sperimentata, eppure c’è in quel contesto geopolitico, che preferisco chiamare il nostro vicino Oriente, un patrimonio residuo di fiducia e di attesa per le iniziative dell’Europa; c’è l’aspirazione a una modernizzazione che da quelle parti fu già tentata e che scorre tuttora come corrente, sotterranea e occultata dal meanstream, nelle coscienze di molti che oggi occupano le piazze di quei martoriati paesi.

Saremo noi degni e capaci di corrispondervi? Ne va del futuro nostro e di una parte rilevante di mondo che aspira alla pace, ma non l’ha mai finora vissuta.

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