DISARMO

Cortile mediterraneo

A colloquio con don Marco Lai, direttore della Caritas diocesana di Cagliari.
Il Mediterraneo può ancora tornare a essere ponte tra culture e persone, crocevia di popoli e di dialogo.
Intervista a cura di Renato Sacco

È il 1° gennaio 2020. Siamo a Cagliari, dove si è svolta nella notte la 52^ Marcia nazionale per la pace. Chiediamo a don Marco Lai, direttore della Caritas diocesana, di aiutarci a capire, a decifrare e a ri-progettare questo Mediterraneo visto della Sardegna, un’isola che ha una storia e un ruolo di ponte per la pace, anche se i potenti l’hanno resa la regione più militarizzata d’Italia, con le sue numerose basi militari, i poligoni e con la nota fabbrica Rwm di Domusnovas. 

Don Marco, parlavi del Mediterraneo come di un cortile, di un condominio…

Il Mediterraneo è la culla della nostra civiltà, della nostra storia. In Europa dobbiamo recuperare uno sguardo meno strabico e più integrale. È arrivato il tempo in cui, se vogliamo pace, giustizia, benessere, dobbiamo per forza ripartire dal cuore del Mediterraneo, ripartire dalla sponda sud, noi che siamo sulla sponda nord. Non per l’interesse predatorio che ci ha accompagnato nell’Ottocento e anche nel Novecento, ma con un interesse di frontiere aperte, di convivenza di popoli. E anche la Chiesa, credo, può avere un ruolo importante a riguardo. Non solo perché abbiamo il patrimonio e la forza del Vangelo che ci spinge a superare ogni frontiera, ma anche perché abbiamo presenze della nostra cattolicità in tutto il mondo, in tutta l’Africa. È vero che nei paesi dell’Africa del nord che si affacciano al Mediterraneo, la presenza cristiana è ai minimi termini, ma è altrettanto vero che anche questa presenza residuale può avere un ruolo importante, come il chicco di frumento, come il lievito, capace di far superare le barriere, le diffidenze, i pregiudizi. Per troppo tempo noi siamo stati colonizzatori. E prima c’erano i saraceni che depredavano le nostre coste. È stato un momento buio della storia. Ma dobbiamo anche pensare ai tempi in cui le civiltà si incontravano, e non come popoli in guerra. Immaginiamo i fenici, tutte le popolazioni che venivano dal Medio Oriente, gli ebrei stessi, i babilonesi, i greci… La Magna Grecia non riguardava solo le coste del nord Mediterraneo, ma anche quelle del sud. Era una civiltà dell’incontro, del dialogo, del commercio, dello scambio, della conoscenza.

La presenza militare nell’isola

Sono oltre 35 mila gli ettari di territorio sardo sotto vincolo di servitù militare. In occasione delle esercitazioni viene interdetto alla navigazione, alla pesca e alla sosta, uno specchio di mare di oltre 20 mila chilometri quadrati, una superficie quasi pari all’estensione dell’intera Sardegna. Sull’Isola ci sono poligoni missilistici (Perdasdefogu), per esercitazioni a fuoco (Capo Teulada), poligoni per esercitazioni aeree (Capo Frasca), aeroporti militari (Decimomannu) e depositi di carburanti (nel cuore di Cagliari), oltre a numerose caserme e sedi di comandi militari (di Esercito, Aeronautica e Marina). Si tratta di strutture e infrastrutture al servizio delle forze armate italiane o della Nato. Qualche numero: il poligono del Salto di Quirra-Perdasdefogu (nella Sardegna orientale) di 12.700 ettari e il poligono di Teulada di 7.200 ettari sono i primi due poligoni italiani per estensione, mentre il poligono Nato di Capo Frasca (costa occidentale) ne occupa oltre 1.400. A questo vanno aggiunte le basi tra le quali spicca il caso di quella Usa di S. Stefano a La Maddalena. 

Fonte: Sito internet della Regione Autonoma della Sardegna

Quindi possiamo sperare che si torni a vivere il Mediterraneo come luogo dell’incontro?

Credo che oggi sia arrivato questo momento. Noi partiamo da una posizione di forza che ci inganna, perché partiamo dalla supponenza di non aver bisogno di loro oppure di potere ancora depredare le loro ricchezze. In questo modo non si costruisce nulla. Invece dobbiamo cambiare il nostro sguardo nei confronti delle sponde sud del Mediterraneo. Dal punto di visto del pensiero e delle idee: quale mondo vogliamo, quale Europa, quale Mediterraneo? Quale sicurezza per la pace vogliamo garantirci? Ripensare al Mediterraneo come era nei tempi antichi: un’autostrada. C’era la civiltà della contaminazione, dell’alterità come ricchezza, non come qualcosa che faceva paura. È  il momento di rinnovare il nostro pensiero. A volte si parla di “guerra preventiva” Questo è follia. Noi dobbiamo costruire il dialogo preventivo, l’incontro preventivo tra Nord e Sud.

Veniamo alla Sardegna: può essere crocevia di culture?

La Sardegna è al centro del Mediterraneo, ma non solo la Sardegna, anche la Sicilia, la Calabria, la Puglia. Siamo in una posizione strategica rispetto a un orizzonte in cui si pongono l’Italia e tutta l’Europa. E non è solo questione di vicinanza geografica, ma di posizione strategica di percorsi e di esperienze che già esistono. Che non son venuti meno neanche nei decenni scorsi. Certo l’approccio colonialista dei francesi è stato micidiale. Ci ha danneggiato molto, per esempio nell’interscambio e nel sentirsi a casa in Tunisia. Ci si sentiva di casa, poi per alcuni decenni l’atteggiamento colonialista ci ha allontanato. Ho in mano, in questo momento, il giornale “Il Corriere di Tunisi”, stampato in italiano. È un esempio. Penso agli scambi culturali tra studenti tunisini che vengono qui a Cagliari e viceversa. Sono cose fantastiche. E anche noi, come Caritas diocesana, abbiamo fatto alcuni campi con giovani a Tunisi, accompagnati dal vescovo mons. Arrigo Miglio. Sono cose da recuperare e valorizzare prima che sia troppo tardi. Quello che sta accadendo in Libia è oscurità, tenebre che ritornano. 

Ma c’è ancora speranza?

Certo, credo proprio di sì. Non si parte da zero. Abbiamo esperienze di scambi tra Chiese sorelle. Penso anche alla Sicilia, nonostante tutti i traumi del colonialismo. Non c’è dittatore, non c’è nessuna politica che possa bloccare la voglia di incontrarsi, che è insita nel cuore delle persone. Le frontiere nord e sud si spostano sempre. Qui c’è un’altra frontiera: di fratellanza, di incontro, di conoscenza. Tutto questo deve essere recuperato. Credo sia strategico promuovere queste riflessioni. In questo anno abbiamo già preso contatti con il vescovo di Tunisi perché il prossimo campus che faremo non sarà solo con ragazzi di Cagliari, ma anche di altre diocesi d’Italia. Andare a Tunisi, fare un percorso di conoscenza ci aiuta a superare tutti i pregiudizi che abbiamo ogni volta che incontriamo qualcuno del Maghreb che arriva in Italia. Costruire ponti (e non parlo certo di quello sullo stretto di Messina…), superare le frontiere e costruire ponti di umanità. Quando c’era Salvini al governo, il console a Tunisi negava i visti ai ragazzi tunisini che volevano venire al nostro campus. Ciononostante ci sono 1200 imprese della Sardegna e di tutta Italia in Tunisia. Ci sono rapporti culturali di ogni tipo. Ci sono gemellaggi tra Camere di Commercio. Penso anche al prete archeologo, parroco della cattedrale di Tunisi che viene a studiare a Cagliari.

Anche la Marcia nazionale per la pace ha contribuito a questo percorso di pace e incontro?

Certo. Con la Marcia nazionale e con il vostro convegno di Pax Christi, ci avete riportato i temi della guerra e delle armi  visti in un orizzonte più ampio, globale. Come arrivare allora a questa cultura della pace se non favorendo l’incontro e la conoscenza? Non c’è altra strada! Le guerre preventive, certi accordi di pace abbiamo visto cosa producono. Penso ad esempio alla Palestina: segregazione, diseguaglianza, Costituzione da cui viene fuori uno Stato etnico come Israele. Lo stesso potremmo dire dell’Iraq, della Siria e così via. L’unico percorso è quello dei popoli che si incontrano. Noi da anni proviamo a dire che bisogna ripartire dal Mediterraneo. 

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