Strette di mano
Note a margine di un memorandum italo-libico.
È ancora in linea, su flickr.com, la foto diffusa da Palazzo Chigi in occasione della firma del memorandum d’intesa italo-libico. Fayez al-Sarraj è ripreso mentre sfoglia le pagine del documento, la bocca semiaperta, come se rileggesse a voce, per controllare che ci sia tutto, e un’ombra di sorriso, la faccia di chi sa di aver appena fatto un buon affare. Il premier Paolo Gentiloni, la Montblanc già sul foglio, che guarda lontano, indecifrabile, sopracciglio alzato e uno sguardo che sembra cercare qualcuno, o qualcosa, o un altrove qualsiasi.
Un paio di governi più tardi, siamo quindi arrivati al 7 di febbraio, data di un rinnovo automatico che per altri tre anni confermerà la “cooperazione nel campo dello sviluppo, del contrasto all’immigrazione illegale, al traffico di esseri umani, al contrabbando” e, naturalmente, al “rafforzamento della sicurezza delle frontiere tra lo stato della Libia e la repubblica italiana”.
Oggi al ministero dell’Interno non siede più un ex sottosegretario con delega ai servizi appassionato di geopolitica, né un indossatore seriale di divise. Il ministro Lamorgese è un più austero prefetto, apparentemente poco incline al gioco del Risiko e ai travestimenti social mediatici. Ma la discontinuità di questo governo, sul tema delle politiche migratorie, finisce qui.
Perché a distanza di tre anni, di quarantamila uomini e donne riportati in quel lager a cielo aperto che è il territorio del nostro socio d’affari mediterraneo, di altre 890 morti in mare, gli accordi sono ancora lì, pronti a perpetrare i loro effetti.
In una nota del ministero degli Esteri diffusa sabato scorso, si annunciava l’invio alle autorità libiche di una proposta di revisione del memorandum. Si parlava di “significative innovazioni per garantire più estese tutele ai migranti, ai richiedenti asilo e in particolare alle persone vulnerabili vittime dei traffici irregolari”, e di “promuovere una gestione del fenomeno migratorio nel pieno rispetto dei principi della Convenzione di Ginevra e delle altre norme di diritto internazionale sui diritti umani”, obiettivo da raggiungere, “nelle intenzioni italiane”, anche attraverso il consolidamento dell’azione di Unhcr e Oim in Libia.
Stando alle prime informazioni diffuse dalla stampa, in attesa di poter leggere in dettaglio la proposta italiana, pare si tratti di un ulteriore supporto in mezzi navali, autoveicoli, attrezzature. Si legge di una spesa di circa 800 milioni di euro a supporto del governo libico, tra cui attrezzature sanitarie che fatichiamo a immaginare siano impiegate per la cura di chi di norma viene massacrato o torturato. Sono, quindi, queste le “significative innovazioni” che finanziamo in uno stato fallito in cui non esiste più un luogo in cui un migrante possa sperare di essere sfuggito al pericolo di cattura, sfruttamento, stupro, tortura, uccisione.
Quanto al riferimento alla Convenzione di Ginevra – a cui la Libia non ha mai aderito – e al consolidamento di Oim e Unhcr per conseguire, “nelle intenzioni italiane”, le “significative innovazioni”, è l’ennesimo esempio dell’ipocrisia con cui si invoca un formale rispetto del diritto internazionale, mentre si agisce nella piena violazione delle sue norme e dei suoi principi.
E non ci resta che tornare alle conseguenze del memorandum. Perché se è vero che i primi accordi di cooperazione con la Libia in materia risalgono al Trattato di amicizia del 2008, che già dal 2009 le prime motovedette italiane furono fornite a Gheddafi, che già a quel periodo risalgono i respingimenti collettivi per i quali l’Italia avrebbe poi subito nel 2012 una condanna da parte della Corte europea per i diritti dell’uomo, e che già allora era noto quanto la condizione dei migranti in Libia fosse terribile, gli eventi successivi alla caduta del Rais hanno spinto quel sistema verso l’abisso.
Numerose testimonianze ci hanno raccontato di innumerevoli casi di uccisione, tortura, stupro, negata assistenza medica, sfruttamento lavorativo. Chiunque, anche al Viminale e alla Farnesina, ha visto o ha potuto vedere le immagini di migranti comprati e venduti in piazza, i video delle torture, le riprese di naufragi e annegamenti. Chiunque voglia può facilmente conoscere – grazie al lavoro di giornalisti come Nancy Porsia, o Sally Hayden, o del collettivo Josi & Loni Project, o del progetto Exodus – i nomi e le storie di persone che sono state uccise o lasciate morire, o che si sono suicidate nei centri di detenzione.
Nel nostro mondo iperconnesso, dove a tutto è consentito muoversi tranne che a chi non è ricco ed è nato dalla parte sbagliata del mondo, siamo in grado di ricevere messaggi dall’interno di quei centri, e di assistere in tempo reale alla disperazione di chi è rinchiuso in strutture che anche la nostra magistratura non ha esitato a definire dei lager.
E mentre tutto continua a ripetersi, rinnoviamo gli accordi per il contrasto dell’immigrazione clandestina e la sicurezza delle frontiere dell’area Schengen. Nel gioco comune della esternalizzazione delle frontiere, l’accordo Italia-Libia è solo un tassello di un sistema più ampio, la cui regia è europea, e il cui schema comune è ormai quello di inserire la gestione delle migrazioni all’interno di qualunque accordo di cooperazione economica, condizionando gli aiuti allo sviluppo alla presa in carico della terziarizzazione del respingimento. Siamo disposti a qualunque tipo di accordo con qualunque tipo di governo, purché facciano per noi, e il più lontano possibile, quel lavoro sporco che le norme internazionali – il cui rispetto formale tanto è decantato – ci impediscono di commettere direttamente.
Un recente rapporto di Oxfam (The EU Trust Fund for Africa) rileva che, dal 2015 al 2019, ben il 26 per cento dei fondi per i programmi di cooperazione allo sviluppo sono stati utilizzati per il contrasto della migrazione irregolare, a beneficio, peraltro, del complesso industriale della sicurezza. Il programma pluriennale di spesa dell’Unione 2021/2027 vede una voce di 30 miliardi di euro per la protezione delle frontiere esterne e per la gestione dei flussi migratori, più di quanto sia previsto per lo sviluppo dell’Africa subsahariana, e un aumento del 250% rispetto al precedente periodo.
Ma se è vero che il sistema è un sistema globale, e che buona parte delle politiche migratorie è ormai il frutto di decisioni di livello europeo, esiste una specifica area di responsabilità da cui il nostro paese e la nostra comunità non possono ritenersi esclusi. L’accordo italo-libico è, appunto, un accordo bilaterale, e come tale poteva e doveva non essere rinnovato. Che il conflitto in Libia abbia ormai da tempo esteso la sua portata a una dimensione macro regionale, con il coinvolgimento della Turchia, della Russia, dell’Egitto e degli Emirati, non può in alcun modo costituire un’attenuante per chi decide, nella globalizzazione dell’indifferenza, di rendersi complice dei massacri subiti dai migranti intrappolati in quell’inferno.
La guerra per procura e l’abisso della condizione dei migranti sono una tempesta perfetta che mette insieme il tema della pace e del disarmo con quello dei diritti negati al popolo migrante. Non esiste un modo semplice di affrontare la crisi, ma le molte cose che si possono e si devono fare sono tutte azioni che ricadono nel potere delle istituzioni europee e italiane. Bloccare ogni assistenza alle strutture armate libiche, pseudo governative o meno, sospendere la zona SAR libica, lanciare una missione di ricerca e soccorso italiana o europea, ritirare la presenza navale italiana da Tripoli, aprire canali legali di ingresso, e mettere nell’agenda della risoluzione del conflitto anche la questione della evacuazione dei migranti sono tutte azioni che possono essere compiute. La mancanza di volontà politica, a tutti i livelli, è complicità nei crimini contro l’umanità che in ogni momento, da anni, pervadono quella terra a noi così vicina.
Papa Francesco ha scritto: “Non è in gioco solo la causa dei migranti, ma di tutti noi, del presente e del futuro della famiglia umana”.