Quale pace?
Chissà perché Donald Trump e i suoi collaboratori, in primo luogo il genero Jared Kushner che è il suo inviato speciale per il Medio Oriente, hanno così insistito sul termine pace nel momento in cui hanno concepito e poi presentato al mondo Peace to prosperity - A Vision to improve the Lives of the Palestinian and Israeli People (https://www.whitehouse.gov/peacetoprosperity/), ovvero il piano con cui la Casa Bianca vorrebbe porre fine a un secolo di confronti violenti tra israeliani e palestinesi. Bisogna chiederselo, perché in quel piano non c’è nulla, ma proprio nulla, che faccia pensare alla pace o che possa far evolvere in senso più pacifico l’attuale situazione di conflitto. D’altra parte anche la forma, oltre un certo livello, diventano sostanza: alla presentazione di Peace to Prosperity, il 28 gennaio a Washington, i palestinesi non erano nemmeno stati invitati. Presenziava, al contrario, un Benjamin Netanyahu ovviamente trionfante. E tra gli scelti invitati figuravano gli ambasciatori di alcune delle petromonarchie del Golfo Persico, giusto per far capire da che parte soffia il vento.
È ormai noto quale sarebbe il piattino preparato da Trump per i palestinesi. Dal punto di vista istituzionale e territoriale, uno stato formato da una serie di aree separate l’una dall’altra, eventualmente collegate da treni, con il dominio israeliano sulle fonti d’acqua e sulla valle del Giordano che, secondo Trump, è vitale per la sicurezza nazionale di Israele. Curioso anche questo, visto che il paese confinante è la Giordania, uno dei più fedeli alleati degli Usa nella regione, un paese che, nel 1994, ha firmato un trattato di pace con Israele. In più, sempre per i palestinesi, la promessa di Netanyahu che per quattro anni gli insediamenti illegali saranno bloccati (e alla fine dei quattro anni?) e quella di Trump di investimenti per 50 miliardi di dollari.
Gerusalemme
Agli israeliani tutto il resto, cioè tutto. Gerusalemme che, da territorio occupato (nella parte Est) secondo la giurisprudenza internazionale, diventa (come peraltro Trump ha già proclamato) capitale indivisa dello stato ebraico. Gli insediamenti illegali (140 autorizzati dal governo israeliano e 121 non autorizzati, dove in totale vivono oggi oltre 600 mila israeliani) diventano legali e quindi territorio di Israele. Nessun diritto al ritorno alle vecchie case o terreni per i palestinesi profughi nei paesi della regione, perché quelle case e quei terreni sono diventati proprietà di israeliani. E nessun diritto, per quei profughi, ad alcuna forma di compensazione. Lo stato palestinese dovrebbe essere disarmato e quindi, considerate anche le condizioni precedenti, totalmente sottomesso al potente vicino israeliano. Incredibile, quindi, che qualcuno alla Casa Bianca potesse credere che la dirigenza palestinese (per quel che è o che ne resta, visto che da sedici anni non si tengono elezioni democratiche) ma soprattutto il popolo palestinese potesse accettare quella sorta di eutanasia forzata immaginata da Trump. Anzi, ricordando i precedenti e le recenti “giornate della rabbia”, il bilancio delle reazioni, in termini di morti palestinesi e di feriti israeliani, è finora drammatico, ma meno drammatico di quanto si potesse temere.
Il punto davvero cruciale, però, è un altro. Il “Piano Trump” contiene quella lunga serie di misure inaccettabili perché si basa sull’evidente convinzione che i palestinesi siano colpevoli e che debbano espiare la loro colpa abbandonando qualunque pretesa che mantenga un minimo di dignità alla loro più che precaria situazione. Vogliono uno stato? Possiamo anche benevolmente concederglielo, ma devono pagare. Israele, al contrario, è innocente, quindi ha diritto a tutto. E gratis.
Com’è ovvio, solo un atteggiamento manicheo può far pensare che, in un secolo di guerre e attentati, schiarite e trattati, ritirate e avanzate, sia possibile dividere così radicalmente i torti e le ragioni, con i torti da una parte e le ragioni dall’altra. Ed è quasi ridicolo che l’entità economicamente, militarmente e politicamente più forte della regione, cioè Israele, continui a essere descritta come una povera entità bisognosa di protezione. Ma questo è Trump, che peraltro è assai trasparente nel porsi come colui che, dall’alto della potenza americana, fa e disfa secondo una convenienza che viene intanto spacciata per civilizzazione e progresso. O per prosperità, secondo una visione dei rapporti internazionali, anche questa molto trumpiana, come inesausta trattativa d’affari.
Vecchi Trattati
Si respira, in questa mossa americana, un’atmosfera da Trattato Sykes-Picot. Nel 1916 le Americhe di allora, ovvero la Francia e il Regno Unito, pretesero di sbarazzarsi della storia, delle istituzioni e dell’eredità dell’impero ottomano con la stessa sbrigativa approssimazione ora sfoggiata da Trump. Una riga qui, un confine là, tu fai il re della Siria anzi no, dell’Iraq, e così via. Il disastro della Palestina cominciò proprio allora. Il Trattato prevedeva che la Palestina venisse affidata a un’amministrazione internazionale. Ma quando gli inglesi mossero all’offensiva contro i turchi e occuparono Gerusalemme, il generale Allenby (detto il Toro) fece chiaramente capire allo stesso Picot che di amministrazione internazionale era meglio non parlare più, di lì in poi ci avrebbero pensato loro, gli inglesi. D’altra parte il primo ministro inglese, in quel periodo, era David Lloyd George, un avvocato originario di Manchester (dove risiedeva la più folta comunità ebraica del Regno Unito e dov’era docente di Chimica Chaim Weizmann, che nel 1948 sarebbe diventato il primo Presidente di Israele) che ai primi del Novecento, per due volte, aveva patrocinato, col suo studio, la richiesta del Congresso ebraico mondiale di avere un “focolare” nei territori dell’impero. Nel 1903 la richiesta riguardava Al-Arish, nel nord della penisola del Sinai. Nel 1906 una serie di altre località tra cui anche l’Uganda. Prima di diventare premier, inoltre Lloyd George era stato ministro delle Munizioni e ministro della Guerra proprio mentre diventava ministro delle Poste sir Herbert Samuel, il primo ebreo inglese a occupare una posizione ministeriale. Uno dei primi atti di sir Samuel fu far circolare nel Governo un memorandum in cui si sottolineava l’importanza della Palestina per le strategie dell’impero britannico e dell’utilità, per l’impero, di incoraggiare l’immigrazione ebraica in quella regione.
La caratteristica precipua del Trattato Sykes-Picot fu quella di non funzionare mai, nemmeno per un giorno. La sua applicazione cieca inaugurò in Medio Oriente un periodo di instabilità e guerre che non si è ancora concluso e che l’iniziativa improvvida di Trump rischia di prolungare. Da un lato, infatti, si riconosce che i palestinesi hanno diritto a uno stato. O, almeno, che dare uno stato ai palestinesi è tuttora il più sensato dei passi da fare. Ma intanto ci si adopera perché questa “concessione” sia accompagnata da una serie di misure che farebbero di quello stato una beffa. Cosicché, oltre all’ira dei palestinesi umiliati e offesi, bisognerà affrontare quella delle organizzazioni dei coloni, il gruppo di pressione più potente in Israele, che di uno stato palestinese, dimezzato o finto che sia, non vogliono nemmeno sentir parlare.
Iniziative così unilaterali, segnate da un imperialismo di vecchissimo stampo, non hanno alcuna speranza di riuscita in Medio Oriente, forse la parte di mondo dove le sfumature e i particolari contano di più. In tono dialogante, ma con parole precise, lo hanno ricordato a Trump anche gli Ordinari di Terra Santa. Commentando il famoso Piano, i patriarchi e i capi delle Chiese hanno richiamato “l’amministrazione Usa e la comunità internazionale” a costruire una visione dei due stati “sviluppata in linea con il diritto internazionale”. Aggiungendo: “E per quanto concerne Gerusalemme, noi facciamo riferimento ancora una volta al nostro comunicato rivolto al presidente Usa Donald Trump il 6 dicembre 2017 e ricordiamo la nostra visione, secondo cui la Città Santa deve essere aperta e condivisa dai due popoli, palestinese e israeliano”. Chi vuol far da sé, da quelle parti, di solito produce ingiustizie e disastri.