Contro la resistenza al cambiamento
Molto spesso, nelle più diverse parti del mondo, non si sa che lo sviluppo è possibile, non si sa esattamente come è possibile: e le situazioni all’estremo o permangono statiche, come in molte delle zone chiamate sottosviluppate - o, se migliorano in qualche modo, non sono autopropulsive -; o hanno una dinamica coi paraocchi, come avviene perlopiù nelle zone a intensa industrializzazione, concependo quasi come fatale un particolare tipo di sviluppo.
In un caso o nell’altro manca perlopiù alle popolazioni interessate la conoscenza esatta dei loro problemi e la visione delle possibili alternative. Le popolazioni soffrono i loro problemi e, in quanto questi rimangono irrisolti, crescono condizioni insane, grumose, talvolta mostruose: e ci si dibatte, spesso ciecamente, o d’istinto a tentoni, talvolta ci si scatena frenetici quando la sensazione del male è tanto acuta da generare panico, incapaci di trovare con la necessaria serena concentrazione gli spiragli delle soluzioni. Tutto questo ci è più chiaro quando vediamo una vespa o un uccello sbattersi disperatamente contro la rigidità dei vetri pur quando la possibilità di uscirne dovrebbe essere evidente: molto meno chiaro quando noi ci sentiamo prigionieri e come incapaci di riconquistare il nostro libero movimento; il giusto ritmo del nostro respiro.
Danilo Dolci
(da: Ciò che ho imparato, 1967)
Se per cambiamento sociale intendiamo quella modifica delle condizioni umane per cui ciascuno, individuo o gruppo, abbia maggiore possibilità di realizzare la propria personalità - dunque maggiori possibilità economiche, ambientali, giuridiche, culturali, morali - è comunque ovvio che molto spesso l’impedimento fondamentale è costituito da una resistenza al cambiamento operata, consapevolmente o ciecamente, dagli interessati - individui o gruppi - a che il cambiamento non avvenga: resistenza che molto spesso si esercita attraverso strumenti e metodi violenti.
Operare per un cambiamento sociale pacifico significa impegnarsi soprattutto affinché i più direttamente interessati al cambiamento riescano ad organizzarsi per diagnosticare quali esattamente siano, caso per caso, gli impedimenti allo sviluppo, e stabilire i propri obiettivi, globali e intermedi; per inventare quelle strategie e quei metodi che possano permettere di impostare esattamente i necessari conflitti e la loro soluzione; per riuscire ad uscire dal pragmatismo qualunquista attraverso un’azione costruttiva ben finalizzata. Non ignorando che viviamo in un’epoca di transizione in cui l’umanità sempre più facilmente può ottenere, attraverso la tecnica, gli strumenti della propria distruzione o del proprio sviluppo.
guidando gli altri come cavalli
passo per passo:
forse c’è chi si sente soddisfatto
così guidato.
C’è chi insegna lodando
quanto trova di buono e divertendo:
c’è pure chi si sente soddisfatto
essendo incoraggiato.
C’è pure chi educa, senza nascondere
l’assurdo ch’è nel mondo, aperto ad ogni
sviluppo ma cercando
d’essere franco all’altro come a sé,
sognando gli altri come ora non sono:
ciascuno cresce solo se sognato.
Quando si dice giustizia, si intende solitamente riferirsi a due significati diversi: corrispondere alle più profonde necessità, al più profondo interesse di ciascuno, persona o gruppo, con senso di responsabilità; o il complesso delle leggi e degli strumenti che dovrebbero rappresentare il minimo proposto dai diversi governi. Si tende a istituzionalizzare le più profonde intuizioni morali: il secondo significato rincorre, sia pure talvolta contraddittoriamente, il primo. La giustizia come la pace, non viene mai sufficientemente realizzata. La disperazione uccide: niente uccide quanto la disperazione.
La nuova intuizione morale identifica ingiustizia e violenza: l’impedire, direttamente o indirettamente, lo sviluppo delle persone, dei gruppi, delle collettività. In quanto il mondo per gran parte è inaccettabile, la nuova morale, necessaria agli uomini se vogliono sopravvivere, identifica la giustizia col cambiamento sociale e, dove l’ingiustizia è più grave, con la rivoluzione nonviolenta: cioè con un cambiamento che al contempo sia strutturale, profondo, rapido, educativo per ciascuno, per cui ciascuno possa assumersi responsabilità ed effettivo potere. Identifica la giustizia con una nuova pianificazione operata creativamente da ciascuno, individuo e gruppo, che sia l’effettivo superamento degli attuali tentativi di “razionalizzazione del sistema”. Identifica la giustizia con il fare esplodere, dove necessario, le inaccettabili contraddizioni.