PACE Anche a sinistra e tra i cattolici, su guerra e pace non si è d’accordo.

Tu non uccidere, ma…

Nello scorso numero di Mosaico di Pace, Alex Zanotelli scriveva una lettera aperta all’onorevole Massimo D’Alema sull’articolo 11 della Costituzione e la posizione del nostro Paese negli scenari internazionali. Un dibattito, quello su pace e guerra, che vede emergere anche tra i cattolici posizioni divergenti. Quest’articolo di Stefano Ceccanti si muove in una linea diversa da quella di Mosaico e siamo certi offrirà spunti per la riflessione e la risposta a molti altri amici e lettori.
Stefano Ceccanti

(C) Olympia Prendere sul serio il comandamento del “Tu non uccidere” contro eccessive concessioni alla ragion di Stato è un’esigenza che sentono tutti coloro che si sono formati intensamente sul Concilio e sulla Costituzione. Tuttavia non si può far dire ai testi ciò che essi non dicono, né fare forzature in nome di un massimalismo etico che rifiuta la fatica delle distinzioni, in cui consiste in ultima analisi il giudizio morale che poggia sull’etica della responsabilità. Una lezione positiva in merito ce la dà nell’ultimo numero de Il Regno Documenti il padre gesuita americano Drew Christiansen. Il nocciolo del suo intervento è il seguente: l’insegnamento cattolico sulla guerra e la pace si è andato progressivamente trasformando in un “ibrido” di componenti di guerra giusta e non-violenza, “con il reale esaurimento dei mezzi non violenti come condizione necessaria per l’uso della forza come ultima risorsa… La sfida che abbiamo tutti davanti è riuscire a elaborare per noi stessi una concezione moderna della guerra e della pace che vada ben oltre la teoria della guerra giusta e che integri la tradizione della guerra giusta con gli elementi che costituiscono la visione cattolica contemporanea della pace, ossia il rispetto dei diritti umani, l’impegno per lo sviluppo e per la giustizia negli affari internazionali e fattori più nuovi e recenti come la non violenza e il perdono”.

Tra Bush e articolo 11

Christiansen non è certo un estimatore dell’Amministrazione Bush e delle sue tendenze unilateraliste: “Molti hanno l’impressione che il governo stia agendo come il proverbiale riparatore che cerca di aggiustare un guasto con il martello perché è l’oggetto che ha a portata di mano. In nessun modo, assolutamente nessuno, gli Stati Uniti possono vincere la guerra contro il terrorismo o persino conservare il rispetto dei suoi alleati se continueranno su questa strada. Per vincere la guerra, dobbiamo intraprendere la pace in modo ancor più vigoroso della guerra”. Tuttavia non è meno preciso nel dichiarare che “L’unica opzione ideale che sembra essere esclusa dal magistero cattolico, anche se resta aperta ai singoli individui che rispondono alla propria coscienza, è quello che io chiamo «pacifismo della non-resistenza», ossia la non-resistenza al male per principio. La premessa cattolica è che ognuno ha la responsabilità di resistere al male pubblico, con la non violenza se ciò è possibile, con l’uso della forza da parte dello Stato se è necessario”.
Un’analoga posizione, da costituzionalista, mi sento francamente di esprimerla anche sull’uso dell’articolo 11 della Costituzione. Anzitutto non si può attribuire ai principali esponenti della Costituente una cultura pacifista radicale. Sia de Gasperi che Togliatti intendevano certo reagire contro lo spirito bellicista del fascismo, contro la guerra di aggressione e gli egoismi nazionalistici, ma non intendevano certo rinunciare né ad una possibilità di difesa dello Stato né, attraverso le istituzioni internazionali richiamate dal secondo comma dell’art. 11, a interventi che contemplassero anche l’uso della forza.
Lo “spirito di Monaco” che aveva portato le democrazie a cedere a Hitler era anch’esso per loro un errore da ripudiare. Né entrambi, in modo diverso dal punto di vista della fecondità storica, ritennero di doversi sottrarre a una collocazione precisa in termini di alleanze internazionali, anche militari. Chi oggi può sensatamente negare che scelte come quelle della Nato siano state storicamente valide? E, sono pronto a scommettere, man mano che il tempo passa molti faranno autocritica anche sull’opposizione all’intervento in Kossovo, che certo ha presentato varie contraddizioni, giuridiche e non, rispetto a un concetto puro di “ingerenza umanitaria”, ma che ne ha rispettato l’ispirazione di fondo, garantendo il bene possibile. Non è stato “legale”, ma certo è stato “legittimo”. Come scrive il medesimo Christiansen “Negli anni novanta divenne chiaro che la forza poteva essere usata legittimamente per prevenire, frenare e punire il genocidio, la pulizia etnica e crimini analoghi perpetrati da governi e da maggioranze etniche dove intere popolazioni erano a rischio”.

Forza e violenza

Un conto è rifiutare i semplicismi della logica della “guerra preventiva” anche sulla base dell’art. 11 della Costituzione, un altro ricorrere ad esso con argomenti massimalisti. Una linea più equilibrata nella vicenda irakena, quale quella tedesca e francese, che ha finito per modificare anche la posizione americana, è stata ben più efficace a sollecitare sviluppi diversi. Come ha scritto Giorgio Napolitano su L’Unità del 5 novembre non ci si può infatti proporre “il solo, angusto obiettivo di tener fuori comunque l’Italia, magari invocando un’interpretazione a dir poco dubbia dell’articolo 11 della Costituzione”, in una logica di “pura resistenza e denuncia sul piano nazionale”, ma proporre linee praticabili per “l’Unione europea come attore globale”, quelle stesse che il Presidente Prodi ricordava a Camaldoli, ribadendo tra l’altro la positività dell’intervento, pur colpevolmente tardivo, in Kossovo come segno, pur tra mille difficoltà, delle effettive potenzialità europee.
Il punto è proprio questo: in nome del “bene possibile” non si può escludere a priori, sempre e comunque, la minaccia dell’uso della forza e lo stesso ricorso all’uso della forza, la quale si distingue dalla violenza per vari aspetti, tra cui quello di basarsi sugli strumenti (pur imperfetti) del diritto. Meglio un cattivo diritto che nessun diritto.

Quei cattolici così diversi…
Padre Drew Christiansen è professore e direttore ad interim del Woodstock Theological Center di Washington e consulente per gli affari internazionali per la Conferenza dei vescovi cattolici degli Stati Uniti, ed è di recente diventato condirettore del periodico dei gesuiti americani America.
Il 28 aprile ha parlato al meeting della Association of Diocesan Attorneys ad Arlington, Va, sul tema La Chiesa, la pace, la guerra.


(…) Su uno spettro che a un estremo ha il realismo secondo cui “la guerra è guerra” e all’altro estremo l’idealismo pacifista, l’insegnamento della Chiesa sta nel mezzo. Gli stessi cattolici si possono trovare in molte posizioni lungo questo spettro, ma il magistero, io direi, abbraccia una gamma che va dalla sinistra moderata alla sinistra estrema: vale a dire, da una rigorosa posizione che sostiene la guerra giusta, enfatizzando le funzioni preventive e restrittive dell’analisi della guerra giusta, a una posizione mista di nonviolenza e di sostegno della guerra giusta come quella proposta dai vescovi degli Stati Uniti nel 1993, al pacifismo della guerra giusta, l’idea che le strategie belliche contemporanee non possono soddisfare le condizioni della guerra giusta, alla nonviolenza attiva, come nell’enciclica di Giovanni Paolo II Centesimus annus del 1991. L’unica opzione ideale che sembra essere esclusa dal magistero cattolico, anche se resta aperta ai singoli individui che rispondono alla propria coscienza, è quello che io chiamo “pacifismo della non-resistenza”, ossia, la non-resistenza al male per principio. La premessa cattolica è che ognuno ha la responsabilità di resistere al male pubblico, con la non violenza se ciò è possibile, con l’uso della forza da parte dello stato se è necessario (…).

Il testo integrale è stato pubblicato su Il Regno-Documenti n.15/2002

Se si dissente, non credo sia coerente farlo a corrente alternata: come quei settori conservatori che usano il comandamento del “non uccidere” come inscindibilmente connesso sull’aborto a una legislazione penale punitiva e che invece arrivano anche ad accettare, con sofisticate distinzioni, la “guerra preventiva”; ma come anche quei settori progressisti che sono liberali sull’aborto e sulla fecondazione assistita rifiutando poi qualsiasi distinzione sull’uso della forza, condannandolo a priori.
Insomma o si fa propria una impostazione alla De Gasperi (contraria alla clericalizzazione dello Stato col coraggio di opporsi allo stesso Papa, ma anche promotore della Nato in nome della pace) o si adotta sempre e comunque un’impostazione fondamentalista in cui la morale emette non solo princìpi, ma anche scelte puntuali ed univoche, senza distinzione tra le scelte che si fanno per se stessi e quelle che effettuate in sede politica incidono anche sugli altri.
L’uso della forza dopo aver esperito le alternative possibili può essere accettabile esattamente come una parziale depenalizzazione dell’aborto ai fini di una riduzione del fenomeno o la rinuncia a sanzioni contro l’adulterio o nel caso ad esso simile della fecondazione eterologa in nome del “bene possibile” da parte di un credente che si trovi ad essere legislatore, fermo restando che egli personalmente è chiamato a non utilizzare tali norme.

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Docente di diritto pubblico comparato, Universita' di Bologna

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