Massimo Toschi

Quando, quattro anni fa, sono andato per la prima volta in Algeria, mai avrei potuto immaginare di poter vivere un’esperienza interessante e una pagina importante della storia di quel Paese. Ho avuto la fortuna, infatti, di partecipare (assieme ad altri pochissimi italiani) ad un interessante colloquio internazionale sul terrorismo organizzato dal governo algerino dal 26 al 28 ottobre scorso al Palazzo delle Nazioni alla periferia di Algeri.
Aperto da un importante discorso tenuto dal presidente Abdelaziz Bouteflika, è stata la prima occasione di riflessione pubblica sul tema del terrorismo, partendo ovviamente dalle vicende nazionali ma collocandole nel quadro internazionale del dopo-11 settembre. Ebbene, dopo l’attacco alle Twin Towers il governo algerino si sente confermato nella linea fin qui seguita contro i terroristi che, per primi nell’area mediterranea, ha combattuto pur nella sottovalutazione generale dei relativi pericoli. Questa ovviamente è la linea degli “sradicatori” secondo cui col terrorismo si è dovuto intervenire col pugno di ferro perché altrimenti il terrorismo e l’islamismo radicale avrebbero potuto impadronirsi del potere in Algeria e portato la catastrofe nel Mediterraneo meridionale. Una tesi che non mi sento di non condividere per larga parte.

Tra GIA e Al Qaeda

Ovviamente, secondo questa tesi, non c’è una differenza tra terrorismo internazione e terrorismo interno, anche se noi sappiamo che esiste una differenza tra Al Qaeda e GIA. Tuttavia, è interessante ricordarsi che Al Qaeda nasce là dove nasce anche il GIA, cioè in Afghanistan, quando l’Occidente, in primis gli Stati Uniti, sostiene le forze militari islamiche contro l’invasore sovietico. Molti algerini all’epoca sono partiti volontari per l’Afghanistan e quando, alla fine degli anni ’80, sono tornati in patria, dopo essere stati educati in una cultura di islam estremo e fondamentalismo, si sono posti l’obiettivo di conquistare il potere in Algeria.
Tutto ciò, scontando la difficoltà del partito unico a dare risposte concrete in termini di lotta alla corruzione, di lavoro, di cambiamenti sociali, di cui l’Algeria aveva bisogno, dunque intercettando questa domanda e prendendo possesso delle moschee: si badi che in Algeria ci sono circa 15.000 moschee, di cui 7.000 sono guidate da persone nominate dal Consiglio Superiore di Studi Islamici, quindi con una formazione, mentre le restanti sono guidate da gente che si è autonominata e in questa situazione si sono creati degli imam che in realtà hanno gestito le moschee, tra la fine degli anni 80 e gli inizi degli anni 90, come strumento di critica religioso-politica al potere costituito.
Quindi il legame con quel terrorismo è quasi di tipo ombelicale, non solo di riferimento: quei terroristi hanno vissuto in Afghanistan, convivendo con i talebani e con coloro che hanno dato vita ad Al Qaeda. In sintesi, il terrorismo algerino non è altra cosa: esso nasce dal medesimo ceppo.
La vera novità di questo colloquio è rappresentata dalle relazioni tenute dai militari, cioè dai generali che comandano le Forze armate e che costituiscono certamente un pezzo importante del potere algerino. Il loro ragionamento è stato il seguente: noi non abbiamo abbattuto la democrazia in Algeria quando, nel 1991, dopo il primo turno delle elezioni (quando cioè sembrava che andasse al potere il FIS, il Fronte Islamico di Salvezza), abbiamo sospeso le elezioni, messo fuori legge il FIS e introdotto una situazione totalmente nuova. Non è stato, quello, un atto contro la Costituzione e la legalità, ma anzi è stato l’unico modo per difenderle entrambe. I militari, insomma, rivendicano con forza la loro fedeltà alla Nazione, al Paese: non hanno voluto occupare il Paese, ma in una particolare congiuntura sono dovuti intervenire per evitare che il Paese prendesse una deriva islamista che sarebbe stata catastrofica e che avrebbe distrutto l’Algeria. E Al Qaeda dimostra, secondo questa tesi, che avevano ragione. Secondo i militari, le elezioni del 1991 erano avvenute in condizioni di non-libertà, perché la pressione proveniente dalle moschee era talmente forte che la gente non era più libera di esprimere il proprio voto. L’imbroglio, dunque, non è avvenuto dopo, bensì prima delle elezioni: c’era un tale clima di violenza che le elezioni non erano libere. Lo testimoniano anche esponenti della chiesa cattolica algerina che raccontano come fosse drammatico il clima tra la fine degli anni ‘80 e gli inizi degli anni ‘90. I militari, quindi, sono “dovuti” intervenire proprio per rompere il clima di terrore e intimidazione, come denunciato anche dal milione e mezzo di algerini scesi in piazza a manifestare all’indomani delle elezioni.

Centomila vittime

Interessante il fatto che i militari hanno fornito dei dati, ovviamente i “loro” dati, sulle vittime del terrorismo. Nel 1993 ci sono stati 744 uccisi e 432 feriti, nel 1994 7.473 uccisi e 3.172 feriti, nel 1995 6.524 uccisi e 65 feriti, nel 1996 4.475 uccisi e 91 feriti, nel 1997 7.244 uccisi e 100 feriti, nel 1998 3.042 uccisi e 3.700 feriti, nel 1999 1.475 uccisi e 1.981 feriti, nel 2000 957 uccisi e 1.211 feriti. E’ chiaro che quando parlano, complessivamente, di 100.000 vittime, in realtà sommano i morti ai feriti. Il fatto che nel triennio 1995-97 si contano pochi feriti sta a dimostrare il fatto che molti di essi non andavano in ospedale per farsi curare e che quello comunque fu il periodo del grande massacro, della “mattanza”. Ovviamente, il fenomeno, alla fine degli anni ’90, subisce una diminuzione quantitativa, a dimostrazione dell’efficacia dell’intervento militare contro un fenomeno che, a metà degli anni ’90, aveva messo in ginocchio l’Algeria.
Certo, tra questi dati mancano quelli sugli arrestati, sui condannati, su quanti sono in carcere (sia a causa di condanna sia in attesa di giudizio) e su quelli che dalle prigioni sono “scomparsi”.
Mi sono convinto che, mentre l’assenza di dati sui prigionieri è troppo grande per non costituire un problema, tuttavia i grandi massacri perpetrati in passato sono stati prodotti dai terroristi: certamente negli scontri militari saranno morti dei terroristi (e anche dei militari, ma anche qui mancano dati), ma in numero infinitamente minore rispetto ai civili uccisi negli attacchi terroristici.
In questo panorama, si è inserita, come ha ricordato lo stesso presidente Bouteflika, la legge sulla concordia civile, che ha rappresentato il tentativo di far uscire dal terrorismo molti e di avviare la fine di una tragica stagione. Quale il limite di questa legge? Si calcola che 5-6000 persone abbiano abbandonato la lotta armata usufruendo di questa legge. Purtroppo questa legge, da sola, non basta, perché ovviamente i “fuoriusciti” sono ritornati nei loro paesi d’origine, nei loro villaggi è lì le vittime si sono ritrovati accanto ai carnefici come se nulla fosse accaduto. Questo ha creato una reazione molto forte nella società algerina: è mancata una “camera di compensazione” in questo passaggio dalla lotta armata alla legalità. Questa gente non ha nemmeno riconosciuto pubblicamente i crimini commessi: non c’è stata un’operazione del tipo fatta in Sudafrica, per intenderci. Questi, non avendo processi in corso, si sono costituiti, hanno consegnato le armi e sono tornati alla vita normale di cittadini normali. Il che ha creato molte perplessità, ad esempio da parte delle associazioni delle vittime. D’altra parte è innegabile che questa legge abbia permesso che un pezzo non piccolo di terrorismo venisse in qualche modo riassorbito, lasciando però delle ferite aperte e senza un vero e proprio processo di riconciliazione, il che costituisce un problema aperto nel tessuto umano e civile della società algerina.
André Glucksmann, presente al convegno, ha sostenuto la sua tesi molto filo-governativa: col terrorismo non v’è alcun margine di trattativa e mediazione. La cosa interessante è stata l’ascoltare queste tesi dall’ex nouveau-philosophe durante i giorni in cui a Mosca si viveva il dramma degli ostaggi in mano ai terroristi ceceni. Glucksmann, da un lato, difendeva la causa dei ceceni, ma dall’altro ha dovuto accettare la decisione di Putin, del quale peraltro parlava molto male, perché di fronte a un pericolo di tale genere è impossibile avallare il terrorismo e scendere a trattative con i terroristi. Una posizione per certi versi palesemente contraddittoria.
L’iniziativa di questo incontro ha senso solo se questo è il primo Colloquio del genere e se quindi l’Algeria continua a riflettere ancora di più sulla propria storia. La stampa algerina ha ben coperto l’evento, al quale hanno partecipato anche pezzi della società civile ma non alcuni grossi riferimenti internazionali, come ad esempio Amnesty International.
C’è anche in Algeria il problema di riconciliarsi col proprio passato: non basta, cioè, raccontare dei fatti, occorre anche rimettere insieme i pezzi della società dilaniata dal terrore. Solo quando una società si sarà riconciliata e avrà una memoria condivisa il passato sarà veramente alle spalle.

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