EDITORIALE

Ritornino i bisognosi

Guglielmo Minervini

Le parole sono come interruttori. Possono dare o togliere luce alle cose. Comunque rivelano il modo con cui percepiamo la realtà. Nel linguaggio della politica, poi, le parole spesso racchiudono concezioni del mondo, visioni della società.

Ad esempio, una cosa è dire bisognosi, un'altra è dire esclusi. Magari in entrambi i casi si fa riferimento alla stessa realtà di disagio, ma il modo in cui si legge cambia tutto. Bisognosi si può nascere, esclusi si diventa. Il bisogno può essere determinato dalla natura, dal caso, dalla fatalità. Bisognosi sono un bambino orfano, una madre vedova, una famiglia alluvionata. L'esclusione è causata dagli uomini, generata da atteggiamenti e da scelte. Esclusi sono un licenziato, un bocciato, un rifugiato.
Prendiamo la questione della riduzione delle tasse. Il 10% delle famiglie più ricche raccoglierà quasi il 40% dei benefici prodotti dalla misura prevista dal governo Berlusconi. Il 12% delle famiglie più povere non avrà alcun beneficio, semplicemente perché, avendo un reddito troppo basso o addirittura non avendo reddito, non è nelle condizioni di pagare nulla. Il 10% delle famiglie più ricche in Italia ha il 47% della ricchezza nazionale.
Al contrario, il 12% dei poveri, all'incirca sette milioni di italiani, vive con meno di 825 euro al mese e si trova in larga misura al Sud. Tra questi si trovano tre milioni di persone costrette ad arrangiarsi con meno di 363 euro al mese. Sono quelli che chiamiamo poveri assoluti. Tra i due estremi della povertà e della ricchezza c'è il ceto medio, ormai l'Italia della terza settimana. A questa Italia che non si può più muovere, perché regolarmente in astinenza negli ultimi sette giorni del mese, la misura di Berlusconi porterà il beneficio di poco più di un caffè al giorno.
Oggettivamente, la cosiddetta riduzione delle tasse assesta un bel colpo di divaricazione alla forbice che separa le parti della società. Un generoso contributo all'ingiustizia.
Eppure, non è nemmeno la questione più grave. Il problema è che questa finanziaria di fatto ratifica la dissoluzione dello “Stato sociale”, cioè il principio secondo cui lo scopo della politica sia l'esercizio della solidarietà.
La lotta alle sperequazioni non è più il fine dell'azione politica. La solidarietà da obbligo (che la Costituzione vuole addirittura inderogabile) viene declassata a facoltà. Un'eventualità condizionata a molti fattori. Intanto (ma ormai nemmeno più solo) alla disponibilità finanziaria. Ma una volta ottenuto il declassamento, una volta licenziato l'obbligo, quello che prima era un diritto viene retrocesso al bisogno.
Quindi le politiche sociali regrediscono a politiche assistenziali. La cittadinanza si traduce con elemosina, filantropia. Ecco l'inganno delle parole. Anzi il loro perverso rovescio. Dilagano i richiami alla bontà mentre ognuno viene invitato a fare da sé. Mentre l'egoismo viene elevato a principio politico di regolazione della convivenza civile.
Così scompaiono gli esclusi e ritornano i bisognosi. Proliferano mense, ostelli, guardaroba, oratori nello stesso momento in cui chiudono ospedali, asili nido, case famiglia, centri di ascolto. E si fanno investimenti in manicomi, istituti minorili, carceri.
Attorno alla gestione del bisogno s'è ingrossata una cospicua economia del sociale che coinvolge cooperative, parrocchie, enti, associazioni. Prima costituivano il nucleo più avvertito nella denuncia dell'insufficienza dei servizi sociali, rappresentavano il motore dell'elaborazione di nuove politiche, mentre oggi, sempre più spesso, sembrano disposti a pagare col silenzio la tutela dei propri spazi di sopravvivenza.
Così l'appalto della gestione dell'obolo, elargito dallo Stato per compensare la scomparsa dei diritti di cittadinanza, raggiunge anche l'obiettivo di smorzare l'ultimo residuo di coscienza sociale. Dov'è finito il volontariato? Quali spine di inquietudine conficca il terzo settore nell'opinione pubblica? Quale provocazione suscita oggi il mondo che si richiama alla categoria scomoda della “carità politica”?
Cambiano le parole, modificando geneticamente i valori costitutivi della nostra comunità, eppure tutto avviene senza una voce che invochi, nelle cose della politica, lo sguardo degli ultimi.
Già, l'occhio degli ultimi, che è poi quello dell'eresia evangelica. Ma non ci stavano a cuore le nostre radici cristiane? Possibile che la più inquietante scelta antievangelica degli ultimi decenni susciti meno calore, sollevi minor indignazione di un presepe contaminato da presenze extracomunitarie?

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