La morale delle tasse
Cosa dice la teologia morale di fronte alla proposta di una società in cui ciascuno “fa da sé”.
Le leggi fiscali hanno reso possibile lo Stato sociale che ha rappresentato e rappresenta, nella storia dei Paesi occidentali, la forma più avanzata di buona società. A questa conclusione arriva una solida teoria economica e la morale ne prende atto con soddisfazione. Lo Stato sociale – osservava, nel 1987, un noto economista – sarà ricordato nei libri di storia come la più grande conquista del XX secolo. Si può pensare – aggiungeva – che sia stato uno dei momenti più forti di penetrazione di idee di solidarietà, di idee profondamente cristiane nel mondo dell'economia.
Si può così capire che la questione tasse non vada considerata a se stante, ma nel contesto del diritto-dovere dello Stato di riconoscere e promuovere non soltanto i diritti individuali, ma anche quelli sociali della persona e, tra questi, il diritto all'istruzione, salute, casa, salario minimo di disoccupazione, pensione. In questa direzione, l'art. 2 della Costituzione italiana dichiara: “La Repubblica […] richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.
Ripensare la solidarietà, non abolirla
D'altra parte, non si può ignorare che lo Stato sociale sia entrato in crisi per molteplici cause (invecchiamento della popolazione; alta tecnologia nei servizi, ad esempio, in campo sanitario, profondi cambiamenti nel lavoro ecc.) e anche per gravi insufficienze e sprechi. Si rimane, tuttavia, alla superficie se non si riconosce che, alla radice, ci sono cause di natura morale, precisamente “la caduta del senso della socialità, che ha prodotto tendenze egoistiche, gonfiando il catalogo dei diritti e delle pretese dei singoli, esaltando l'individualismo e lasciando in ombra i doveri, le relazioni, le responsabilità” (CEI, Commissione “Giustizia e Pace”, Stato sociale ed educazione alla socialità). In altre parole, sono venuti meno importanti valori: la coesione sociale, il senso di appartenenza alla comunità e, quindi, la solidarietà.
Lo Stato sociale va certamente ripensato, ma non per ridurlo al minimo possibile, come vorrebbe una visione liberista, ma per portarlo al massimo possibile, come esige una visione solidale. Certamente alcuni settori possono essere privatizzati, ma è fin troppo evidente che “il mercato non può assicurare una distribuzione equa dei servizi sociali di base, caratteristici dello Stato sociale: l'istruzione, la tutela della salute, la sicurezza sociale. Tanto meno può garantire una soddisfacente qualità” (CEI, Commissione per i problemi sociali e del lavoro, Democrazia, sviluppo e bene comune). Il ruolo dell'intervento pubblico, nell'ambito dei servizi sociali di base, non può essere rimosso. Un recente sondaggio evidenzia che i cittadini italiani (di qualsiasi partito) non sono affatto favorevoli alla riduzione delle tasse se questo comporta pagare di tasca propria i servizi di cui hanno bisogno. In realtà, il taglio delle tasse, che non s'identifichi con il taglio dei servizi sociali, è credibile e possibile solo se si contrasta l'evasione fiscale e il malcostume, morale e giuridico, del condono che è sicuramente uno dei fattori che incoraggiano l'evasione.
Giustizia ed equità
Il vero problema morale delle tasse è quello della giustizia e dell'equità. In particolare, le tasse devono essere proporzionate alla reale capacità contributiva dei singoli cittadini (e delle imprese) e progressive in corrispondenza al reddito. Per questo, oltre che a fare buone leggi fiscali, i cittadini sono chiamati a controllare la gestione e la destinazione del denaro pubblico. Il contribuente non firma una cambiale in bianco, come se si trattasse di una donazione incondizionata allo Stato (regioni, provincia, comune). In regime democratico, i cittadini hanno soprattutto due strumenti per contrastare distorsioni e prevaricazioni: la denuncia, oggettiva e provata, di scelte non giustificate dal bene comune; e il voto punitivo verso chi ha tradito la fiducia. In questa prospettiva, si pone una grande domanda: cosa fare per impedire che i governanti (dei Paesi ricchi, ma non solo di questi) spendano di più per gli armamenti che non per l'istruzione, la sanità, la riabilitazione degli handicappati e per tanti scopi umanitari? La domanda va mantenuta alta. La società, e per essa la Stato, deve saper cogliere il messaggio che viene da persone e gruppi sociali e, tra questi, dal movimento dell'obiezione al militare nelle sue varie forme: al servizio militare, alla ricerca scientifica militare, all'obiezione fiscale alle spese militari. Si tratta di scelte minoritarie, ma il messaggio è per tutti. Snaturarlo (ad esempio, equiparare l'obiezione di coscienza alle spese militari all'evasione fiscale) significa incapacità, più o meno consapevole, di interpretare gli eventi.
Pagare le tasse
La questione tasse non è un capitolo nuovo nella morale cristiana. Già l'apostolo Paolo insegnava ai cristiani di Roma il dovere di pagare le tasse per motivi di coscienza e non per il timore delle sanzioni. “È necessario stare sottomessi non solo per timore della punizione, ma anche per ragioni di coscienza… Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi il tributo il tributo; a chi le tasse le tasse; a chi il timore il timore; a chi il rispetto il rispetto” (Lettera ai Romani, 13,1-7). Tale posizione è tradizionale nella storia del cristianesimo. Tuttavia, nei secoli passati, i teologi moralisti hanno sostenuto la cosiddetta teoria delle leggi meramente penali, vale a dire, le leggi fiscali non obbligano in coscienza, ma soltanto in forza della sanzione. Si fa torto, però, a quei teologi se si ignora il contesto sociale ed economico che li ha indotti a inventare tale teoria. L'organizzazione della società non era per niente democratica; il sistema fiscale ingiusto, gli esosi balzelli opprimevano i poveri. Le leggi fiscali è stata un'invenzione per difendere i diritti dei poveri dalle pretese dei principi, dei signori e dei monarchi assoluti.
Tale teoria è del tutto abbandonata per ovvi motivi, ma non si può negare che ha contribuito molto a rimuovere le leggi fiscali dalle coscienze. Non a caso il concilio Vaticano II esorta i cristiani, e non solo loro, a non trascurare i doveri sociali. “Tra questi doveri non sarà inutile ricordare il dovere di apportare alla cosa pubblica le prestazioni, materiali e personali, richiesta dal bene comune” (Gaudium et spes, 75). Gli inadempienti vengono seriamente ammoniti dai Padri conciliari: “Non pochi non si vergognano di evadere con vari sotterfugi e frodi alle giuste imposte e agli altri obblighi sociali” (Gaudium et spes, 30). La teologia morale precisa ulteriormente che pagare le tasse, ovviamente nel presupposto che siano giuste ed eque, è un dovere di giustizia che implica il dovere della restituzione alla comunità della somma sottratta.
Formare le coscienze
La morale, filosofica o teologica che sia, non rende un buon servizio alle coscienze se si limita a ricordare il dovere; è necessario riscoprire e proporre l'autentico significato. Pagare le tasse è espressione concreta di solidarietà; partecipazione effettiva alla vita della società; modalità efficace con la quale la proprietà privata si coniuga con la sua funzione sociale. La legislazione fiscale, infatti, rende possibile e praticabile un'equa distribuzione dei beni materiali tra i membri della comunità.
Non è degno della coscienza adulta e matura pagare le tasse per timore della sanzione o del peccato; non è nemmeno giusto sperimentare tale dovere come un danno e una privazione forzata di un bene personale. Per superare tale sentimento, occorre ricuperare il senso di appartenenza alla comunità che permette di comprendere che il bene personale e il bene della comunità civile stanno insieme.