Contrordine: de-globalizzare
La parola d'ordine de-globalizzazione simboleggia un nuovo ordine economico mondiale dove i Paesi poveri abbiano voce e peso. L'obiettivo è semplice ma eretico: “smantellare le strutture e le istituzioni economiche e sociali oppressive, crearne di nuove, demilitarizzare, promuovere la pace”. Ne abbiamo parlato con il principale teorico, l'economista Walden Bello.
Lei scrive nel suo libro “Deglobalizzazione” (Baldini&Castoldi) che “la Cina non è il paradiso dei lavoratori. Essa presenta dei seri problemi nel campo dei diritti dei lavoratori, proprio come gli Stati Uniti (…)”. Ancora “la Cina ha la più grande confederazione sindacale del mondo, con 100 milioni di iscritti”. La Cina, in futuro, diventerà un modello come quello degli Stati Uniti?
Il modello economico seguito attualmente dalla Cina è destabilizzante non solo per il Paese, ma per tutto il mondo. Si è dimostrato che i capitali americani, europei e giapponesi, con la collaborazione del Governo cinese, hanno trasformato la Cina in un enorme cestino dei rifiuti di tutto il mondo. Lo stesso Paese dove si attua un'economia di rapido sviluppo, ma basata anche su ineguaglianze sempre più grandi, su destabilizzazioni ambientali sempre più gravi. In quanto cittadino del Sud del mondo, mi sento di dire che è necessario influenzare il Governo della Cina affinché si muova rapidamente nella direzione di una forma di sviluppo più equa, a tutela dell'economia e dell'ambiente.
Lei sostiene che l'Asia necessita di un'integrazione economica. Pensa anche a una moneta comune?
Non credo che la moneta unica sia un'esigenza immediata, anche se dobbiamo impegnarci per ottenerla. Una sana integrazione economica può avere luogo anche senza.
Com'è il mondo dopo la vittoria di Bush?
Ciò che si vuole è una maggioranza dei popoli, come gli arabi, che siano tenuti a bada da un salutare rispetto per la letale potenza americana. Il
Lei più volte ha denunciato la crisi delle tre fondamentali istituzioni del mondo. Quali prospettive di governance del pianeta hanno la Banca Mondiale, il WTO e il Fondo monetario?
Quella che abbiamo di fronte è una crisi di legittimità. Grande parte delle persone al mondo non le considera sufficientemente credibili come agenti preposti allo sviluppo, ma solo funzione e tramite degli Stati dominanti e degli interessi delle élite. È chiaro che i governi fanno fatica a rinunciare a queste istituzioni, ma si rifiutano di dare il consenso ai loro programmi, sempre che non siano costretti. Come avrebbe detto Gramsci, “il dominio senza il consenso è sempre molto instabile”. Lo strapotere del Fondo Monetario Internazionale (FMI), della Banca Mondiale e dell'Organizzazione Mondiale per il Commercio (WTO) fonda la sua egemonia su politiche economiche esclusiviste.
In questo contesto, cosa devono fare i Paesi del Sud del mondo per ottenere finalmente riconoscimento e legittimazione?
Negli ultimi cinque sei anni, la considerazione di queste tre istituzioni internazionali ha dimostrato una certa utilità solo per una minoranza. Si diffonde rapidamente una cultura secondo la quale, risulta davvero molto difficile trasformare queste istituzioni in soggetti utili alla maggioranza globale. Sia i Governi dei Paesi in via di sviluppo che la società globale, dovrebbero pensare o di “smantellare” le tre istituzioni o di ridurre la loro azione. Quello che si propone è un modello di deglobalizzazione che fondi la sua strategia su: indebolire queste istituzioni, rafforzare le istituzioni regionali, creare un meccanismo di contrasto e di equilibrio per creare uno spazio politico nuovo, in modo che i Paesi in via sviluppo possano elaborare strategie indispensabili per salvarsi dall'inganno della globalizzazione. Si parla di Ordine Globale perché lo stesso crei più spazio per i Paesi del Sud del mondo e soprattutto in cui non ci sia un solo modello di sviluppo imposto dall'alto.
Questa dinamica di de-globalizzazione che lei suggerisce potrebbe arrestare la recessione mondiale?
Potrebbe renderla meno grave, perché le economie sarebbero meno legate le une alle altre, quindi meno aperte a tagli provenienti dalle aree “depresse”. Per quanto riguarda la globalizzazione dico che è positiva dato che facilita il flusso di conoscenza, la comunicazione, il dialogo sui valori. Il problema è il processo attraverso cui tali elementi vengono distorti al servizio del capitale globale.
Lei è stato a Genova nei giorni del G8. Cosa vede dopo quei giorni?
D'allora, abbiamo avuto una grandissima mobilitazione del movimento anti-globalizzazione. Genova deve essere vista come momento di grande crescita, cominciata a Seattle e arrivata fino a Porto Alegre. Genova è stata una delle tappe di un lungo percorso che ci ha portati a manifestare contro il Fondo Monetario Internazionale a Washington nell'aprile del 2001, poi in Thailandia contro la World Bank e successivamente contro il Vertice di Davos. Il movimento anti-globalizzazione ha conquistato l'iniziativa morale. Purtroppo, i fatti dell'11 settembre ci hanno riportato tutti indietro. Credo che sia questione di tempo. La crisi del modello americano, l'ultimo crollo della Borsa di Wall Street, il crollo economico in Argentina, la ribellione contro le politiche neoliberali in Brasile, Perù e Venezuela: sono tutti fatti che restituiscono al movimento no-global l'iniziativa politica.
La repressione di Genova, per quanto brutale e apparentemente insensata, non è stata solo il frutto della stupidità dei governanti italiani e dei loro apparati di sicurezza. È stato anche e soprattutto il prodotto di un etichettamento dei movimenti collettivi e dell'associazionismo trans-nazionale come terreno di coltura del “terrorismo”. Una definizione che dovrebbe far ridere, se non fosse dottrina diffusa in gran parte dell'intelligence occidentale, civile e militare.