Primitivi di buone maniere
Si può osservare il legame tra sport e violenza solo se si colloca lo sport nel suo tempo storico. Si può, ad esempio, partire da de Coubertin, che alla fine dell'Ottocento immaginava di rifondare il movimento olimpico in funzione di una autentica pedagogia sociale, basata sulla presunta continuità fra sport del mondo classico e sport della incipiente modernità industriale.
In realtà, come gli storici hanno dimostrato da tempo, l'idea decoubertiniana del “ritorno a Olimpia” rappresenta un caso esemplare di quella che Hobsbawm ha chiamato invenzione della tradizione. Si manipolano costrutti storici a fini edificanti – si pensi al tema della tregua olimpica, impropriamente interpretata come una sorta di moratoria in conflitti in atto – ma, nel merito, non veri. Non si tratta di casi isolati. La rifondazione del movimento olimpico, come riflesso del cosmopolitismo aristocratico dei suoi
• Un dato leggermente declinante è, invece, quello che riguarda la presenza fisica negli stadi. Gli spettatori sono oggi meno di 9 milioni.
• Gli italiani che professano una “fede” calcistica in qualche club sono almeno 30 milioni.
• Il pubblico televisivo e radiofonico consumatore di incontri calcistici supera i 25 milioni.
Inventare la tradizione
Lo studioso Allen Guttmann, già alla fine degli anni Settanta, aveva esaurientemente descritto lo sport contemporaneo come un prodotto esemplare dell'industrialismo e del produttivismo. Nella stagione che annuncia il fordismo, le guerre mondiali e l'avvento dei grandi totalitarismi, lo sport del Novecento rappresenta l'altra aspirazione della nascente società di massa.
Per Guttmann, lo sport moderno nasce secolarizzando pratiche che nell'antichità contenevano una dominante valenza religiosa. Predica ed esige un'idea di eguaglianza fra soggetti in competizione che l'antichità non ha mai posseduto, se si fa eccezione per l'agonismo plebeo, cioè l'atletismo delle scommesse e dello spettacolo di tipo professionistico. La modernità sportiva afferma criteri di specializzazione tecnica e di codificazione delle regole e impone strutture burocratiche di regolazione ignote agli antichi. Si basa, infine, sull'idolatria della prestazione perfettamente misurata e sul principio produttivistico del record che non appartengono in alcun modo allo sport antico.
Dunque, la materia è problematica e molte sono le possibili differenti chiavi di lettura della violenza nello sport.
Civili e con le buone maniere
La prima fa riferimento proprio alla teoria della civilizzazione, elaborata da Norbert Elias già negli anni che precedono la seconda guerra mondiale. Questa teoria, in larga parte ispirata alle opere sociali di Freud, ritiene che la civilizzazione esprima un grandioso processo di interiorizzazione delle norme sociali e di conseguente repressione delle pulsioni istintuali degli
• Il giro d’affari totale del calcio italiano ammonta a oltre 6 miliardi di euro.
• Il volume monetario movimentato dai giochi e dalle scommesse sportive, al netto delle vincite, è stato l’anno scorso di 540 milioni di euro.
Com'è possibile spiegare, allora, l'apparente recrudescenza della violenza, dentro e fuori i campi di gara, che caratterizza lo spettacolo sportivo contemporaneo? In molti invitano a contestualizzare questa rappresentazione del fenomeno. Nonostante episodi sporadici anche molto gravi, la tendenza dominante – se osservata lungo un arco temporale significativo – non sarebbe affatto quella di una crescita della violenza. Eventi come il massacro dell'Heysel del 1985 – che stimolò una vivace ripresa di analisi sul tema – hanno non pochi precedenti nei primi decenni del Novecento. Secondo questa linea di pensiero, sarebbe lo sviluppo recente delle tecnologie comunicative e soprattutto della televisione planetaria, a generare una distorta percezione del fenomeno. Si dovrebbe, in tal senso, analizzare la spettacolarità mediatica della violenza “sportiva” e le sue implicazioni sociali, non l'effettiva espansione dell'aggressività dentro e attorno allo sport.
Non toccare il pallone con le mani
Altri studiosi azzardano, invece, un'interpretazione fondata sull'ipotesi del “deragliamento temporaneo” del processo di civilizzazione. Varrebbe per la violenza nello sport quello che avviene per le categorie della vergogna e del pudore. Dall'età vittoriana in poi l'espressione pubblica dei sentimenti e delle emozioni è stata fortemente censurata, come pure sono state esorcizzati quegli stili di vita che più potentemente evocavano la presenza della sessualità nella vita quotidiana. Progressivamente viene meno la promiscuità dei sessi e delle generazioni (e talvolta delle specie animali) nella vita
• I proventi da sponsorizzazioni, pubblicità e merchandising dei club di serie A e B ammontano a 235 milioni di euro.
• Gli incassi lordi medi annuali delle partite di calcio di serie A e B, calcolate nell’arco degli ultimi tre campionati, hanno superato i 220 milioni di euro.
È proprio l'età vittoriana a introdurre regole e tabù, modalità di codifica e sanzione nella libera espressione della fisicità. Per esempio imponendo una differenziazione fra football e rugby, paradigmatica nella genesi dello sport britannico. Da una parte un gioco, il calcio, regolato e dominato da rigidi vincoli. Non si tocca il pallone con le mani, si contrasta al massimo il contatto fra giocatori, si comminano sanzioni che evocano l'universo carcerario: rigore, punizione ecc. Un gioco riservato in origine alle classi sociali subalterne, potenzialmente “pericolose” perché per definizione prive della socializzazione alle buone maniere riservata ai rampolli delle classi dominanti. Dall'altra, uno sport di squadra, il rugby, assai più rude e assai più tollerante verso l'uso della forza fisica e dell'aggressività in campo. Un gioco che deve esaltare la propensione al rischio e al coraggio, rivolgendosi a giocatori che sono allievi delle accademie militari o delle scuole di élite, per definizione già in possesso dei “fondamentali della civilizzazione”. L'uso strategico della forza, dell'aggressività e della violenza attraverso le regole sportive, insomma, diviene parte di una cultura e di una pedagogia fondate su una visione coercitiva della vergogna e del pudore.
L'irresistibile piacere della trasgressione
Il secolare processo di civilizzazione, avendo introdotto una poderosa catena di controlli sociali e avendo sviluppato insieme una sequenza di tabù etici e comportamentali, non sarebbe contraddetto dall'invenzione dello strip tease, dall'affermarsi del topless sulle spiagge o, più di recente, dalla spettacolarizzazione delle emozioni attraverso format televisivi tipo Grande Fratello. Anzi, proprio il fatto che attorno a queste manifestazioni della vita collettiva si producano dinamiche di vera o presunta trasgressività e morbosità, sta a dimostrare la forza del controllo sociale indotto dalla civilizzazione.
Anche l'hooliganism e la violenza dentro e attorno agli stadi, analizzati dal sociologo Antonio Roversi, altro non rappresenterebbero che una sorta di deragliamento temporaneo della tendenza prevalente, impulsi non ancora sottomessi e addomesticati.
AAA Capro espiatorio cercasi
Invece, secondo altri il comportamento dei tifosi violenti di una curva calcistica non sarebbe spiegabile a prescindere dalla memoria etologica del branco animale.
Infatti, il fenomeno si può affrontare anche partendo da un altro punto di osservazione. Per Sofsky non conta tanto la quantità e la qualità della violenza e neppure l'intensità e la drammaticità delle sue manifestazioni. A rendere la violenza, compresa quella sportiva, un fenomeno peculiare, oggi è il suo carattere sistematico e organizzato. Ciò che inquieta non è tanto l'aggressione di un gruppo di tifosi violenti ai danni di un individuo isolato, reo soltanto di indossare un simbolo di diversa appartenenza subculturale, come una sciarpa dai colori sbagliati. Quello che esige un'analisi più ravvicinata è il fatto che un gruppo organizzato abbia cercato un capro espiatorio, si sia preparato ad aggredirlo, abbia celebrato un rituale di sangue e ad esso abbia conferito un significato collettivo.
A disegnare scenari angoscianti sono il luogo e il momento in cui la violenza sportiva si fa premeditazione e, allo stesso tempo, viene giustificata e ricondotta alla banalità di un “quotidiano simbolico” fondato sull'opposizione amico-nemico. A rendere Auschwitz e Hiroshima infinitamente più terrificanti dei più terrificanti massacri della storia non sono le dimensioni quantitative della tragedia, bensì la sua scientificità, l'incontro con la razionalità industriale, il carattere predeterminato e consapevole dell'azione, la trasformazione del nemico in una massa anonima. In sintesi, la trasformazione del genocidio in routine. Come ci ha insegnato Hannah Arendt, è la banalità del male che rende il male difficile, o addirittura impossibile, da redimere. In altre parole, per questo filone di pensiero, non sarebbe l'incompiutezza della modernità a produrre la violenza. La violenza è piuttosto intrinseca alla modernità e si alimenta dell'osmosi con la cultura dominante delle società di massa. E lo sport, formidabile lente di ingrandimento delle dinamiche sociali, appartiene a pieno titolo al suo tempo storico, al di là delle retoriche moralistiche e delle illusioni pedagogiche.
Anche un osservatore critico, come Zygmunt Bauman, ha riconosciuto il legame tra modernità e violenza, ma senza istituire un nesso troppo stringente. È uno dei possibili esiti, in un tempo storico che genera insieme creatività e distruttività.