Le radici islamiche dell'Europa
Alle nostre radici, dunque.
La tesi provocatoria di uno dei più grandi e scomodi teologi del nostro tempo, Hans Kung.
“Non c'è pace tra le nazioni senza pace tra le religioni. Non c'è pace tra le religioni senza dialogo tra le religioni. Non c'è dialogo tra le religioni senza un modello etico globale; Non c'è sopravvivenza del nostro pianeta nella pace e nella giustizia senza un nuovo paradigma di relazioni internazionali fondato su modelli etici globali”. Hans Kung, teologo tra i più grandi e i più controversi dei nostri tempi, nel 2001, di fronte al Commissario Generale delle Nazioni Unite, opponeva alla previsione di uno “scontro di civiltà” tra cristianesimo e Islam “una realistica visione di speranza: le religioni e le culture del mondo, in accordo con tutti gli uomini di buona volontà, possono contribuire a evitare lo scontro”. Genova, proclamata capitale europea della Cultura, la Superba, che dai saraceni fu strapazzata per anni e nel 936 addirittura saccheggiata, ha recentemente riconosciuto al teologo una laurea honoris causa in Filosofia. La sua lectio magistralis si è trasformata in un'acuta provocazione diretta non solo agli intellettuali occidentali ma anche alle cosiddette radici cristiane. Ma chi ha nutrito le giovani radici cristiane se non l'Islam?
Cos'è andato storto?
A partire dagli anni Sessanta del Ventesimo secolo “il mondo islamico – spiega Hans Kung – è stato sorpassato da tutte le regioni in via di sviluppo, eccetto l'Africa sub sahariana. Secondo lo Arab Human Development Report, presentato alle Nazioni Unite nel 2002 ed elaborato da studiosi e politici arabi il gruppo dei 26 Stati Arabi, nonostante grandi progressi in campo educativo e sanitario, presenta ancora negazioni di diritti civili e libertà economiche, deficit negli ambiti della formazione, della ricerca e della conversione produttiva del sapere, scarsa partecipazione delle donne alla
responsabilità pubblica e all'attività produttiva”. Nonostante il petrolio, tutti gli Stati Arabi messi insieme nel 1999 producevano per 350miliardi di dollari, un PIL non molto più ‘pesante' di un solo Stato europeo come la Spagna. “È poco utile – afferma Kung – cercare sempre nuovi capri espiatori per giustificare il fatto che questa civiltà, che per tanto tempo è stata la più forte e la più culturalmente progredita del mondo, sia divenuta una civiltà debole, povera e culturalmente stagnante”. Kung si chiede insieme all'islamologo britannico Bernard Lewis: “Che cosa è andato storto”? E con Lewis si risponde: “L'arretratezza dell'Islam inizia già nel XII, quando ha preso congedo dalla filosofia e quindi dall'autonomia della scienza profana”.
Le radici dell'Europa cristiana
Già a 27 anni il filosofo più importante della Spagna Ibn Rufd, latinizzato in Averroè, aveva composto i primi commentari delle opere di Aristotele. Averroè “era riuscito a spiegare con
Bastano poche decine di anni e intere scuole di traduttori permettono alla cristianità latina di accostarsi ad Aristotele attraverso i testi di Averroè: se per la filosofia arabo-islamica quest'uomo laico e libero rappresenta un punto conclusivo, rivela Kung “egli costituisce un punto d'inizio per la filosofia medioevale cristiana. Tommaso d'Aquino, condannato a Parigi dal suo vescovo (tanto che occorreranno molti secoli prima che sia proclamato Dottore della Chiesa) – il teologo ammicca non senza ironia – è il primo grande scolaro di Averroè e insieme il suo più grande avversario”. È il medioevo dei “magistri” delle nascenti università “che a confronto con la filosofia degli arabi fecero l'esperienza di un pensiero autonomo, di un insegnamento nello spazio cittadino, e non più nello spazio conventuale”. Ma se la filosofia si è nutrita di dispute, di contestazioni, di confutazioni di dottrine non ortodosse “i teologi medioevali hanno filosofato quanto i laici, la legge della discussione vale per tutti”. Con il Rinascimento si solleva, da questo coacervo, un'umanità libera, autonomamente responsabile, mentre nell'Islam, dove, ricorda Kung “dominano i tradizionalisti, venne resa impossibile una nuova libertà di pensiero e di azione, una creatività del produrre e del vivere. Là dove le università e gli istituti sono interamente dominati da una scienza giuridico-teologica fossilizzata, non si svilupperanno nuove idee. La colpa sta nell'ostinarsi su un paradigma superato”.
Public Intellecttuals
All'inizio del Novecento, la svolta: “molti intellettuali turchi e arabi erano convinti del declino della cultura islamica e della necessità di riforme secondo il modello europeo. Ma oggi per gli intellettuali islamici la cultura europea ha ancora il valore di modello?” Il pensiero va agli “intellettuali impegnati” come Zola e Sartre, ma i nostri sono gli anni, in cui, per paradosso, proprio in Francia “vivono alcuni giovani intellettuali musulmani che sostengono posizioni piuttosto audaci anche rispetto all'esegesi del Corano”, mentre in Germania molti intellettuali “che un tempo mostravano inclinazioni decisamente socialiste, dopo la svolta del 1989 sono diventati muti”, accusa Kung. Tutto intorno dilaga la “chatting class – denuncia ancora il filosofo del dissenso – che nei talk show televisivi fornisce un surrogato delle serie discussioni venute a mancare nel parlamento o nelle Università”.
Negli Stati Uniti sono stati soprattutto intellettuali neoconservatori ad aver preparato “già molto tempo prima dell'11 settembre – affonda –, dell'illegale e immorale guerra contro l'Iraq, un altro concetto di politica internazionale, che non si basa più sull'intesa, la cooperazione e l'integrazione, ma punta alla conflittualità politica, all'aggressività militare e alla volontà di egemonia su tutti i fronti. Il voto del 2 novembre ha mostrato che si continuerà ad andare avanti in questo stile”.
Ciò di cui oggi abbiamo urgente bisogno “sia nel mondo islamico sia occidentale, sono i public intellectuals, uomini e donne culturalmente sensibili, politicamente attenti, socialmente impegnati”. Donne e uomini “che credano nell'uguaglianza di tutti le persone, nutrano sfiducia verso il concetto del nemico, valutino positivamente le molteplici forme di potere del nostro mondo, sentano di appartenere alla stessa specie umana sullo stesso pianeta e abbiano la consapevolezza che ciascuno condivide speranze e valori con molti altri, al di là dei confini”.