Tutte le guerre sono ingiuste?
Lanciamo il dibattito con i primi interventi di Thomas Casadei, Maurizio Viroli e Pietro Scoppola.
Michael Walzer è un intellettuale di origine ebraica arcinoto al pubblico americano. Lo chiamano left-liberal, liberale di sinistra. Non solo è un democratico, ma è l'animatore di una rivista, Dissent, che si sforza di parlare di socialismo liberale (quindi della necessità di più Stato a difesa dei diritti sociali) a un pubblico, quello statunitense, che sembra condannato a un liberismo anti-sociale quasi congenito. Non è un radicale alla Noam Chomsky, ma non è un conservatore. Non è un estremista alla Michael Moore, ma è un anti-Bush dichiarato e militante. Ha quasi settant'anni ed è stato tra i paladini dell'opposizione alla guerra in Vietnam. Poi ha iniziato a riflettere sistematicamente attorno a un tema che, per il pacifismo di ogni epoca, è una patata bollente di non poco conto: guerre giuste e guerre ingiuste. E da trent'anni sostiene una tesi scomoda, per cui alcune guerre non vanno fatte, altre sì, e a tutti i costi. Anche senza l'ONU. È il caso della guerra in Kosovo del 1999, che andava cominciata prima e andava accompagnata da subito con un intervento di terra, perché si trattava di salvare un popolo da un'operazione di pulizia etnica. È il caso della guerra in Afghanistan, l'unica risposta possibile e plausibile alla strage dell'11 settembre. Non è il caso dell'ultima guerra in Iraq, intervento che aveva alternative pacifiche (la via degli ispettori ONU) e non giustificabile sul
piano umanitario (il regime di Saddam era brutale e repressivo, ma non era impegnato in un omicidio di massa al momento dell'ultimo intervento americano).
Michael Walzer ha avuto il merito di scrivere queste tesi e di consegnarle anche al pubblico italiano, in un volume appena uscito con Laterza, Sulla guerra. Il movimento pacifista può ignorarle e continuare a reclamare il rifiuto della guerra “senza se e senza ma”. Non leggere il libro, non parlarne. E fermarsi a Noam Chomsky e a Michael Moore. Oppure può provare ad ascoltare queste tesi. Pur rimanendo in molti casi nel solco del dissent.
Noi abbiamo scelto la seconda opzione.
Dibattito con dissent
Thomas Casadei è un giovane studioso dell'Università di Modena e Reggio Emilia. Sta lavorando alla prima monografia su Walzer in Italia (“Il sovversivismo dell'immanenza. Diritto, morale, politica in M. Walzer”, Polistampa, 2005). Ci spiega che questo libro va letto con calma e preso sul serio, al di là delle esemplificazioni. “Una massima di Walzer è quella per cui gli argomenti devono marciare alla pari con il mondo reale. E tutti i saggi, in particolare quelli della seconda parte di questo libro, sono scritti in risposta a conflitti specifici, sempre come parte di un dibattito pubblico su un momento e un luogo specifici. Di qui la loro urgenza, la loro presa e anche in qualche modo la loro pericolosità, perché potenzialmente forieri di giustificazioni per azioni pratiche di profonda portata come sono sempre le azioni di una guerra”. Si tratta di tesi lontanissime, però, dal mondo pacifista. Perché dovremmo interessarcene? “Così come la guerra è troppo importante per essere lasciata ai generali, anche la teoria della guerra giusta non può essere lasciata solamente ai suoi sostenitori. Walzer, con le sue argomentazioni e i suoi dubbi, insegna anche questo. Così come insegna a non semplificare mai le questioni quando si tratta di guerra. Paradigmatica a questo riguardo è la sua visione del conflitto tra Israele e Palestina come un intreccio tra “quattro guerre”: due ingiuste – il terrorismo palestinese e il disegno del Grande Israele con l'occupazione dei territori – e due giuste – la guerra palestinese per creare uno Stato indipendente accanto a quello di Israele e la guerra israeliana per la sicurezza). Prenderlo sul serio, anche se può essere doloroso, è forse necessario”.
Con o senza ONU
Maurizio Viroli è noto al grande pubblico come collaboratore de La Stampa e di Ballarò. È attualmente forse il professore italiano di Teoria Politica più famoso all'estero, con una cattedra all'Università di Princeton. Per Viroli Walzer ha ragione. A partire dall'intervento in Kosovo, che promuove a pieno titolo, arrivando a sostenere che in Ruanda andava fatta la stessa cosa. “Walzer è il primo a collegare la teoria della guerra giusta alla questione delle guerre umanitarie. Lo fa riflettendo soprattutto sul Kosovo, schierandosi a favore di quell'intervento e le ragioni che Walzer apporta su questo punto sono condivisibili, nel senso che quella in Kosovo è stata una guerra giusta per due ragioni: ha fermato un genocidio contro minoranze ed è stata un intervento multilaterale. Non sono tra coloro i quali pensano che quella guerra non andava fatta perché mancava una risoluzione ONU. Ci sono situazioni in cui chiunque può intervenire, chi ha i mezzi e la forza per farlo, ha anche il dovere di farlo. In Kosovo, inoltre, si è mantenuta, nei limiti del possibile, un' attenzione verso i civili”. Anche sulle due guerre post 11 settembre, Viroli abbraccia le tesi di Walzer. “Sono due casi da tenere ben distinti. Sono d'accordo sull'intervento in Afghanistan, terra in cui è stata provata l'esistenza di cellule terroristiche pronte a distruggere i regimi musulmani moderati. L'Iraq, invece, non è in nessun modo classificabile come guerra giusta, né legittima, perché non c'è nessun collegamento tra il vecchio regime di Saddam Hussein e una minaccia terroristica internazionale”.
Tutte le guerre sono ingiuste
Pietro Scoppola è professore di Storia Contemporanea all'Università di Roma “La Sapienza”, è stato direttore di una rivista storica come Il Mulino, scrive per la Repubblica ed è stato senatore della DC. La sua opinione sulla guerra giusta è un'altra. “ Il concetto di guerra giusta è un concetto sorpassato e inaccettabile. La Chiesa stessa non lo propone, non lo può proporre più nessuno in termini ragionevoli Non si può più teorizzare di guerra giusta quando gli strumenti di distruzione hanno raggiunto i livelli che la tecnologia oggi consente. Le guerre sono tutte ingiuste, disumane e devastanti perché non consentono più la distinzione tra combattenti e civili”. Se, però, Scoppola rifiuta la teoria della guerra giusta, ammette la guerra come strumento di difesa. “Non c'è dubbio che esiste, a livello di vita dei singoli e delle collettività, il diritto della difesa. Ma va pensato e vissuto in termini minimalistici, cioè secondo la regola del minimo necessario. La guerra preventiva come strumento di difesa è, in questo senso, inconcepibile”. Questo diritto alla difesa, per Scoppola, può anche diventare dovere della difesa degli inermi e dei deboli nel caso delle cosiddette “guerre umanitarie”. “In alcuni casi può essere incivile il non intervenire. Se da un lato il principio del non uccidere è fondamentale, dall'altro non si può tollerare un genocidio senza far nulla e bisogna applicare il principio della solidarietà umana. Ma bisogna valutare di volta in volta se un intervento armato migliora realmente una situazione o la peggiora. E bisogna rafforzare gli organismi internazionali, auspicare un loro coinvolgimento. Non dimentichiamo l'enciclica di Giovanni XXIII, la Pacem in terris, di oltre quarant'anni fa, quando siamo stati alla vigilia di una terza guerra mondiale; lì è esplicitamente dichiarata l'esigenza di un ordine internazionale costituito da istituzioni che abbiano gli strumenti per garantirlo”. Su Afghanistan e Iraq, invece, il giudizio di Scoppola è netto. “Queste due guerre preventive sono assolutamente inaccettabili, anche perché i fatti degli ultimi anni hanno dimostrato che non hanno risolto nessun problema, anzi li hanno aggravati. Forse se si fosse lasciata agire a lungo l'ispezione dell'ONU si sarebbe ottenuto lo stesso risultato o forse uno maggiore. Senza questo massacro, questo macello che è sotto gli occhi di tutti”.