Eucaristia e liberazione
Una domanda che non può essere evitata per inquadrare correttamente l’Eucaristia riguarda la sua genesi e l’orizzonte storico in cui l’ebreo Gesù colloca quel famoso convito. Per lui la cena pasquale è memoria di una “Pasqua” molto terrena e concreta, quella ebraica, avvenuta un millennio prima ad opera di un Dio che non sopportava che un popolo fosse schiavo di un Faraone divinizzato. “Gli israeliti gemevano nella schiavitù e gridavano. Le loro grida di aiuto salivano fino a Dio, dal fondo dell’oppressione in cui giacevano. Dio ascoltò le loro grida e si ricordò della sua alleanza” (Es 2,23-24). La cena che Gesù vuole condividere con i suoi amici e amiche serve a rendere attuale l’evento antico, per cui ogni commensale si considera personalmente salvato dalla schiavitù.
La domanda che dovrebbe risuonare in ogni assemblea di fedeli è, per l’appunto, se l’Eucaristia mantiene l’orizzonte storico e liberazionista di Gesù, e cioè se essa
– è memoria dell’Esodo, cioè di quel processo faticoso e contrastato che sigla l’Alleanza tra Dio e un popolo di schiavi e che Dio intende sottrarre al dominio disumanizzante di un Faraone;
– è segno di liberazione effettiva per gli schiavi e gli oppressi di oggi, e in quale misura essi vengono liberati dal Dio che si fa “pane” in un popolo di se-dicenti discepoli;
– è convivio di una famiglia umana, sul modello di quella giudaica, che si riunisce non intorno a un altare ma a una mensa, con i simboli propri di tale comunità;
– è presieduta da un “presbitero”, cioè da un “anziano”, il quale, per indicare che chi ha maggiori responsabilità è veramente un “servitore” non della Parola ma della comunità, si umilia fino a lavare i piedi dei fratelli e delle sorelle.
Eucaristia e dinamica simbolica
Ogni Istituzione, come ogni liturgia, ha i propri simboli, che possono essere significativi o vuoti, vivificanti o mummificati. L’Eucaristia stessa contiene una straordinaria carica simbolica, che si è andata evolvendo nei secoli. A noi pare essenziale fare i conti con una domanda centrale: esiste una analogia tra l’assetto simbolico del convito di Gesù e quello della Chiesa attuale? In particolare la riflessione ecclesiale non può evitare tre nodi problematici.
a) La santuarizzazione. L’Eucaristia è celebrata da secoli in un contesto sacrale: chiese, linguaggi, canti, orazioni, disposizioni delle persone, posizioni del corpo, paramenti, luci, calici, il tutto rigorosamente regolamentato dall’autorità suprema, il papa. Tale configurazione simbolica – è la prima domanda – mantiene una coerenza immediata con il convito di Gesù? Favorisce la presenza passiva di cristiani abitudinari o la partecipazione di discepoli del Signore? Vivendo in un contesto culturale in cui il pane esprime la quotidianità del cibo e il vino l’eccezionalità della festa, può l’ostia far pensare a un cibo consueto e quotidiano? Pur nel debito decoro della celebrazione, possono paramenti e oggetti preziosi, oltre alla separazione tra “clero” e “fedeli”, ricordare un festoso pasto di una comunità?
b) Il sacrificio. Il canone della Messa e la letteratura teologica utilizzano un linguaggio simbolico che parla di “sacrificio”, di “Agnello”, di “espiazione”, di “vittima che cancella tutti i peccati del mondo”. A conferma di tale dimensione sacrificale, al centro del tempio si colloca un “altare”, si parla di “ostia” (hostia=vittima), mentre il tutto avviene con la mediazione di un consacrato-consacrante, autorizzato a ri-attualizzare la presenza sacrificale di Gesù. La seconda domanda a tale riguardo potrebbe essere così formulata: esiste un plausibile e fondato collegamento tra il simbolo della Messa, fondato su vittima-altare-sacerdote, e quello utilizzato da Gesù, con la tavola imbandita nella cena ebraica e pasquale? Il simbolo induce sentimenti di docilità e sottomissione, o attinge alla nonviolenza contestatrice del profetismo e di Gesù?
c) La transustanziazione. Moltissime pagine appassionate sono state scritte nel corso dei due millenni su “come”, “quando”, “per quanti minuti”, “ad opera di chi” e “come” il Pane e il Vino subiscano una “transustanziazione”, diventando Corpo del Signore nel corso della celebrazione. Senza nulla togliere a queste dotte analisi, non comprendiamo perché la teologia, le encicliche, il canone della Messa e le migliaia di pubblicazioni che inneggiano al “Pane disceso dal Cielo” non spendano una parola sulla “transustanziazione” del fedele, come del celebrante. E qui si apre la terza domanda: il cambiamento di sostanza del Pane e del Vino in Corpo amoroso di Cristo si accompagna a un cambiamento “sostanziale” del cattolico che partecipa al rito? La transustanziazione è un fatto che riguarda un po’ di Pane e di Vino, o coinvolge la vita di un popolo, facendolo diventare espressione vivente di un nuovo e concreto ordine di pace e di giustizia?