Crisi di liquidità
Abbiamo incontrato Zygmunt Bauman, il sociologo polacco oggi docente emerito all’Università di Leeds e di Varsavia, senz’altro tra i più internazionalmente autorevoli, che ha studiato i paradossi della modernità e la solitudine del cittadino globale, la sorprendente voglia di comunità e la progressiva liquidità dei rapporti umani, le sfide dell’etica nel tempo della globalizzazione imperante e la decadenza degli intellettuali. Il suo ultimo volume comparso in Italia – Paese che lo ama, da lui apertamente riamato – è Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi (Laterza, 2004). Bauman è arrivato a Fossoli per accompagnarvi la moglie Janina (sfuggita alla Shoà dopo aver vissuto nel ghetto di Varsavia) che doveva svolgere una lezione magistrale nella Baracca didattica recentemente restaurata, incentrata su Memoria dell’Olocausto. Fonti e modi di trasmissione della conoscenza alle generazioni future. Detto di passaggio, ma non troppo: i due costituiscono una splendida coppia, tre figli e sei nipoti, visibilmente innamorata, che si confida in polacco le incuriosite reazioni a quanto accade intorno a loro.
Ha poi vissuto in Israele e Inghilterra, dove risiede tuttora. Attualmente insegna Sociologia nelle Università di Leeds (UK) e di Varsavia. I suoi studi si occupano di temi rilevanti per la società e la cultura contemporanea, dall’analisi della modernità e postmodernità, al ruolo degli intellettuali, fino ai più recenti lavori sulle trasformazioni della sfera politica e sociale indotti dalla globalizzazione.
In questo contesto, Zygmunt Bauman ha accettato di rispondere alle nostre domande. Che sono state poche, perché Bauman è – mentre, classe 1925, sta per compiere quattro volte vent’anni – un fiume in piena.
Lucido, articolato, chiarissimo nelle sue argomentazioni non di rado provocatorie.
A partire da una riflessione sull’identità e sui drammi delle chiusure identitarie sempre più diffuse, uno dei suoi leitmotiv più cari. “Si tratta di una questione particolarmente complessa, perché dietro alla domanda sull’identità oggi sta in realtà il seguente interrogativo: come vivere insieme su un pianeta sovraffollato, in cui l’interdipendenza di tutti con tutti gli altri è totale? C’è, dunque, il problema serissimo della possibilità di sopravvivenza del genere umano.
Attualmente, l’umanità appare più esclusiva che inclusiva, e i conflitti sono all’ordine del giorno su scala planetaria.
Una buona modalità per cominciare a riflettere, in ogni caso, è prendere le mosse dalla questione dell’Olocausto (come lui definisce la Shoà, seguendo la tradizionale dizione anglosassone, ndr), in relazione alla quale mi piace sempre ricordare una frase di mia moglie Janina, che compare nell’introduzione alla sua autobiografia Inverno nel mattino (Il Mulino, 1994): ‘Durante la guerra ho appreso la verità che generalmente scegliamo di lasciare inespressa: vale a dire, che la cosa più crudele della crudeltà è che disumanizza le sue vittime prima di distruggerle.
E che la battaglia più dura è rimanere umani in condizioni disumane’.
Potrei addirittura dire che gli ultimi vent’anni della mia ricerca io li abbia dedicati a riflettere su questa frase…
Ho studiato l’Olocausto non per contestualizzarlo storicamente, ma per cercare di spiegare in questo modo la questione della modernità, cioè la situazione in cui gli esseri umani si sono disumanizzati e debbono condurre delle feroci battaglie per conquistare la loro umanità.
La conclusione di questo mio studio sull’Olocausto non riguarda tanto il dovere di ricordare, ma il fatto che noi stessi – in determinate circostanze – potremmo diventare artefici di atti del genere, e che nell’animo umano è insito il seme malvagio dell’Olocausto
Dal ’47 al ’52 ospita Nomadelfia, la comunità cattolica dove la fraternità è legge fondata dal sacerdote carpigiano don Zeno Saltini, con le sue frotte di bambini raccolti dalla strada o dagli orfanotrofi, le sue mamme di vocazione, la sua incrollabile fiducia nella Provvidenza. I nomadelfi, in tal modo, capovolgono dichiaratamente il precedente uso del Campo, che da luogo di dolore e reclusione forzata diviene così uno spazio di convivialità giocosa pur se difficile da gestire, soprattutto in un tempo di ricostruzione postbellica che mette a nudo le peggiori radicalizzazioni ideologiche: fino a costringere don Zeno ad autoridursi allo stato laicale e i suoi a emigrare nella Maremma grossetana, dove la comunità-villaggio è tuttora operante.
Farò un esempio, relativo a un’intervista da me letta qualche tempo fa rilasciata dalla madre di uno dei torturatori di Abu Ghraib, in Iraq, la quale descriveva il proprio figlio come un bravo ragazzo.
Personalmente, sono propenso a credere a quella madre: il problema è che (ripeto, in determinate circostanze) gli esseri umani normali si possono effettivamente macchiare di atrocità simili.
D’altra parte, eventi dello stesso tipo hanno visto protagonisti anche soldati britannici e svedesi, e capitano pure a Guantanamo.
Ha dunque torto Goldhagen quando, nel suo libro sui Volenterosi carnefici di Hitler, parla di atti mostruosi compiuti da mostri.
E del resto, non si può sostenere che esista, nella cultura occidentale, un anti-iraqismo, per dir così, coltivato da secoli…
Per concludere, mi pare che, di fronte alla fragilità della natura umana, portata a scadere nella bestialità, anche oggi, anche vicino a noi, occorre una strenua difesa dei diritti umani: non per compassione però, né per generiche motivazioni etiche o morali, ma per difendere noi stessi dai demoni che albergano in noi e che, altrimenti, tendono a ritornare a galla e a sopraffarci”.
Modernità torrenziale
Il secondo tema che abbiamo affrontato riguarda il rapporto della modernità con l’altro. Con la dovuta cautela, per la delicatezza della questione e per l’assoluta specificità della Shoà antiebraica, si potrebbe infatti affermare che la modernità abbia purtroppo conosciuto varie forme di olocausti (basterebbe pensare ai conquistadores dell’America Latina), che si sono sempre puntualmente accompagnati dal rigetto dell’altro.
Come fare, da questo punto di vista, ad andare oltre la modernità? “Mi rifaccio al mio Modernità e Olocausto (Il Mulino, 1992), in cui sostengo che esistono diversi aspetti della modernità: crudeltà impersonale, assassinio categorico – con individui che vengono uccisi semplicemente per quello che sono, senza una motivazione specifica – e altissima tecnologia (che mette a disposizione strumenti che annientano esseri umani senza neppure vedere le vittime, in modo tale da comprimere le richieste etiche che potrebbero sorgere in frangenti simili).
Un’ulteriore caratteristica della modernità è che ora il mondo può essere rifatto da capo, diciamo così, sulla base di determinati schemi, agevolmente, senza particolari problemi.
In quest’ottica, la presenza di certi gruppi – dagli aborigeni agli occhi dei conquistadores ai devianti per i nazisti – viene considerata poco più che un ostacolo sulla strada della modernità.
La situazione contemporanea, d’altra parte, non è in grado di fornirci piani totali di costruzione della società: abitiamo un
La decadenza degli intellettuali. Da legislatori a interpreti, Bollati Boringhieri, 1992
Il teatro dell’immortalità. Mortalità, immortalità e altre strategie di vita, Il Mulino, 1995
Le sfide dell’etica, Feltrinelli, 1996
Modernità e olocausto, Il Mulino, 1999
La società dell’incertezza, Il Mulino, 1999
Il disagio della postmodernità, Bruno Mondadori, 2000
Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, 2000
La Libertà, Città Aperta, 2002
La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, 2000
Voglia di comunità, Laterza, 2001
Modernità liquida, Laterza, 2002
La società individualizzata. Come cambia la nostra esperienza, il Mulino, 2002
Società, etica, politica. Conversazione con Zygmunt Bauman, Raffaello Cortina, 2002
Intervista sull’identità, Laterza, 2003
Lavoro, consumismo e nuove povertà, Città Aperta, 2004
Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi, Laterza, 2004
Da Juri Lotman sono solito recuperare un paio di ottime metafore adatte a descrivere tale situazione: da quella del fiume in piena, la cui massa d’acqua avanza massicciamente travolgendo ogni cosa si trovi sul suo percorso, a quella del campo minato, in cui il pericolo è sparso, invisibile, perennemente incombente. Questa mi sembra l’immagine odierna del nostro pianeta”.
Meglio fare buone domande
Un’immagine che, forse per la calma e il tono sereno con cui Bauman accompagna la sua analisi, più che spaventare e spingere al pessimismo assoluto, ci convince ad assumerla come caso serio: fare memoria non solo per evitare che i mostri del passato ricompaiano, ma anche per trasformare questo nostro mondo in un altro mondo finalmente possibile.
Come recita la tradizione ebraica di cui il sociologo è figlio, pur così sui generis, del resto, talvolta porre le domande corrette è persino più importante di fornire delle risposte. E le domande di Bauman, oggi, sembrano davvero indispensabili.