Uno Tsunami d’affari
“Non abbiamo bisogno dei vostri soldi. O almeno: ne abbiamo bisogno ma a patto che a decidere le priorità per la ricostruzione siamo noi stessi. Uomini, donne e bambini che, dopo l’onda anomala, rischiamo di venire sommersi da programmi di sviluppo pensati per ricchi turisti e investitori stranieri”. Una mano sul fianco, l’altra appoggiata a un albero per prendere ombra, la tragedia dello Tsunami a Porto Alegre, tra gli oltre duemila seminari del V Forum sociale mondiale, prende la voce e la faccia di Linus Jayatilake, Presidente della United Federation of Labour dello Sri Lanka. Il volto preoccupato di chi da anni lotta per migliorare il modello di sviluppo del proprio Paese, ma che oggi si trova a fronteggiare la solidarietà d’assalto che nasconde, neanche troppo bene, dietro il bisogno delle popolazioni colpite, la “corsa all’oro” delle imprese transnazionali di infrastrutture.
Costruire grandi opere non piccoli villaggi
Un caso emblematico, quello dello Sri Lanka, che rischia di diventare l’ennesimo capitolo del brutto romanzo della cooperazione che non ci piace, quella che costruisce ponti, autostrade, insediamenti industriali, sulle ossa sommerse di comunità, piccoli villaggi di pescatori, spazi poveri ma
sostenibili, che rischiano di venire lavati via, per la seconda volta, dopo il maremoto.
La denuncia di Linus è molto precisa: “La task force del nostro Governo, che gestisce i 4,5 miliardi di dollari di aiuti internazionali, ha lanciato un piano di ricostruzione basato su tre punti: la costruzione di grandi strade e città dove spostare i pescatori che fino a oggi vivevano sulle coste; l’insediamento, proprio davanti alla barriera corallina, di hotel e infrastrutture turistiche molto più grandi e numerose di quelle che c’erano; il progetto per la fondazione di un grande porto industriale, pensato non certo per le piccole barche della pesca comunitaria, ma adatto alle grandi navi delle multinazionali della pesca”. Non a caso la task force del Governo ha deciso di appoggiarsi alla JICA, agenzia di cooperazione internazionale giapponese, che si occupa prevalentemente di finanziare infrastrutture e porti. Anche alcune imprese norvegesi e danesi, specialiste in sbancamenti, sono entrate nella task force e il numero degli imprenditori e dei lobbisti stranieri che si autoinvitano al tavolo delle trattative “cresce giorno dopo giorno – rivela ironico Linus – tanto che noi che vi partecipiamo abbiamo libri di biglietti da visita. Gli interessi delle imprese non ci sembrano più sospetti da vecchi diffidenti”.
Ricostruire senza vendere all’asta
Il Governo si nasconde dietro un buon argomento: “Secondo loro, la gente scioccata dalla tragedia – continua Linus – ha bisogno di essere ricollocata altrove. Ma noi della regione siamo in grado di decidere da soli del nostro destino”. In Sri Lanka, come in gran parte dei Paesi colpiti, esistono forti reti di società civile, che, anche se i media internazionali sembrano non essersene accorti, erano già attivi nelle aree più inaccessibili a poche ore dal disastro, e molto prima degli eserciti e delle ong di emergenza. “Anch’io, che sono un piccolo agricoltore biologico – dice infatti Linus – ho avuto buona parte della mia casa e della mia terra distrutte. Ma insieme agli altri attivisti della società civile, del sindacato e dei piccoli imprenditori, non vogliamo andarcene. Lavorando insieme abbiamo proposto al tavolo pubblico un piano alternativo, che punta sul biologico, l’artigianato, le piccole imprese, le forze migliori delle nostre comunità”. Un piano avanzato, per recuperare urgentemente le aree costiere e agricole e restituirle alle comunità di pescatori e contadini; per bonificare le aree agricole salinizzate dal mare e convertirle alla produzione biologica; per una ricostruzione sostenibile delle aree turistiche, integrate con le comunità locali e a basso impatto, “ricominciando a guadagnare subito – chiarisce Linus – senza venderci all’asta”.
Ricostruzione vorace
L’Alleanza dello Sri Lanka per la protezione dei diritti umani e delle risorse naturali” (ANRHR), ha chiesto da Porto Alegre di spezzare quel cerchio pericoloso, che collega gli interessi delle grandi imprese estere con la capacità finanziaria di agenzie ufficialmente interessate allo sviluppo delle popolazioni colpite, ma intermediarie concrete degli interessi delle lobby impegnate nella ricostruzione. Ma l’Alleanza non chiede aiuto soltanto al movimento: ha fatto appello alla Commissione Asiatica per i Diritti Umani (AHRC) chiedendo “chiarezza sul ruolo degli organismi internazionali come FMI e Banca Mondiale che stanno utilizzando la tragedia per aumentare la presenza di imprese private, grandi strade e strutture turistiche, con l’obiettivo di privatizzare servizi e beni fondamentali come l’acqua”.
Il grido d’allarme dello Sri Lanka non suona come una voce isolata: gli fa eco sempre da Porto Alegre Paul Baskar, della ONG indiana Peace Trust che denuncia che “buona parte dei villaggi della costa del Tamil Nadu nel distretto del Nagapattinam sono stati colpiti dal maremoto, e usando questo incidente e la paura della gente come una buona occasione d’affari, anche in questa regione le grandi imprese di pesca e turismo stanno lanciando un’offensiva nei confronti dei Governi locali per ottenere le concessioni per la ricostruzione. Accendete i riflettori dell’opinione pubblica occidentale su questi traffici, fate pressioni sui vostri Governi e sulle Nazioni Unite perché fermino la voracità delle imprese, altrimenti da soli non ce la potremo fare”.
Regolare le imprese
Al momento, però, non esistono regole internazionali per definire un ruolo corretto per le imprese transnazionali nelle collaborazioni con le Nazioni Unite o con i Governi locali, come hanno denunciato al Forum Sociale l’ONG Mani Tese e l’associazione di commercio equo Roba dell’Altro Mondo, presentando le storie e le denunce delle organizzazioni del Sud. È infatti fermo prima dell’approvazione finale della Commissione Diritti Umani delle Nazioni Unite, un testo di Norme sulla responsabilità delle imprese in tema di diritti umani, che aiuterebbe la “tracciabilità” dei loro comportamenti in tutto il mondo. “Questo pacchetto – spiega Deborah Lucchetti di Roba – aiuterebbe a ricostruirne meriti e misfatti per poter scegliere le collaborazioni più “etiche” e meno a rischio di facilitazioni occulte degli interessi privati con i soldi degli aiuti. È difficile credere che grandi multinazionali che abbiano in passato dimostrato di non rispettare i diritti umani e i principi dello sviluppo sostenibile, possano cambiare perché commosse da grandi tragedie”. Risulta dunque difficile affidare all’autoregolazione volontaria delle imprese il compito di promuovere pratiche di responsabilità sociale: “Eppure lo fa anche il nostro Governo – continua Lucchetti – che dopo due anni di blando impegno sulla ‘Responsabilità Sociale di Impresa’ lancia la Campagna di comunicazione chiamata ‘Coscienza’, come se bastasse richiamare gli imprenditori a un esame di coscienza per fermare la deriva di un mercato senza regole che non ammette eccezioni, nemmeno per le 200.000 vittime dello Tsunami”.
Una soluzione? “Un nuovo sistema di regole e monitoraggio internazionali – spiega Lucchetti – in cui governi e associazioni del Nord e del Sud, procedano insieme alla denuncia e a sanzioni esemplari che facciano perdere alle imprese immagine e molto denaro. Sarebbe un buon percorso per riformare in parte le Nazioni Unite e avvicinarle al nuovo bisogno di giustizia e partecipazione che sale dalle comunità di tutto il mondo”.