Obiezione addio?
Il 15 dicembre di 30 anni fa veniva promulgata la prima legge che riconosceva in Italia il diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare. Le porte delle carceri militari si aprivano per far uscire le centinaia di ragazzi che avevano preferito il carcere alla divisa e al moschetto.
Può sembrare strano che se ne torni a parlare, e a scrivere, dopo trent’anni, quando sembra che sia passato... un secolo. E non lo facciamo certo per pura nostalgia o amore dei ricordi. Quale senso ha parlare oggi di obiezione di coscienza quando, da più parti se ne proclama la morte? La fine della leva obbligatoria, già fissata per legge al gennaio 2007 (ma che l’attuale Governo vuol anticipare di un paio d’anni), ha decretato anche la fine di ogni riflessione sull’obiezione lasciando che, al massimo, si discuta su ipotesi di servizio civile volontario? Noi crediamo che le agende d’impegno scritte dagli altri, soprattutto dalle gerarchie militari o dagli strateghi d’oltreoceano, non siano vincenti per il popolo della pace. E’ come se la nonviolenza percorresse binari non paralleli a quelli delle politiche di difesa che i nostri governi sfornano ogni giorno.
E’ per questo che parlare oggi di obiezione di coscienza significa anzitutto “non dimenticare”: le lotte, le sofferenze, le incomprensioni, gli sgambetti della politica, le divisioni (anche tra i pacifisti!), ma anche le vittorie, le soddisfazioni per le battaglie vinte in tribunale, le statistiche che ti danno ragione...
Ma interrogarsi su trent’anni di obiezione significa soprattutto guardare al futuro e capire quali forme e quali colori debba assumere oggi il “no” alla violenza e all’uso delle armi. Forse, contro il rischio della marginalizzazione e dell’oblio che può scendere sull’obiezione alla guerra, sempre attuale ahimè, si può cominciare a partire da quel milione di giovani italiani che, in trent’anni, ha scelto di difendere la Patria non entrando in caserma.
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