STORIA

L'ultima testimonianza di Giovanni XXIII

Il contesto storico ed ecclesiale
nel quale nacque la Pacem in terris.
Giovanni Turbanti

“Ieri sera... ho poi consacrato tutto il Vespero, circa tre ore nella lettura della enciclica di Pasqua in preparazione, fattami da mgr Pavan: ‘La pace fra gli uomini nell’ordine stabilito da Dio e cioè: nella verità, nella giustizia, nell’amore, nella libertà’. Manoscritto di 111 pagine dattilografate. Ho letto tutto, solo, con calma e minutissimamente e lo trovo lavoro assai bene congegnato e ben fatto. L’ultima parte poi: ‘Richiami Pastorali’ in pienissima risonanza con il mio spirito. Comincio a pregare per la efficacia di questo documento, che spero uscirà a Pasqua e sarà motivo di grande edificazione. Stasera benedico il Signore che mi ha dato i primi 7 giorni del nuovo anno in sanità letizia perfetta”.
Così annotava Giovanni XXIII la sera del 7 gennaio 1963 nella sua agenda. L’enciclica a cui stava lavorando, la Pacem in terris, sarebbe uscita effettivamente l’11 aprile successivo, giovedì santo, e avrebbe avuto una risonanza straordinaria in tutto il mondo.

Un momento drammatico
Era stato lo stesso mons. Pavan a proporre alla fine del novembre 1962 l’idea di un’enciclica su questi temi. Ne aveva scritto a mons. Capovilla, segretario personale del Papa, indicando già alcune linee per la redazione: “Durante questo mese... ho avuto possibilità di pensare, anzi di meditare, sugli avvenimenti e sugli elementi che caratterizzano, su piano mondiale, l’attuale momento. Mi sono fatto la persuasione che la Chiesa renderebbe un servizio di altissimo valore, se, come in campo economico-sociale attraverso l’Enc. Mater et Magistra, così pure in campo socio-politico indicasse una linea d’azione chiara e sicura, e la indicasse in forma positiva, usando un linguaggio piano e modi di argomentare accessibili agli uomini d’oggi”.
Tra gli elementi che spingevano il pontefice a un intervento diretto sul tema della pace c’era sicuramente il clima di tensione internazionale che proprio nella seconda metà del 1962 aveva registrato momenti di particolare tensione quando, su richiesta di Fidel Castro, il presidente sovietico Kruscev aveva disposto l’installazione di basi missilistiche a Cuba, attrezzate con testate nucleari in grado di penetrare facilmente nel territorio statunitense. Il presidente Kennedy aveva deciso il blocco navale dell’isola ed era giunto a minacciare un attacco militare per impedire l’installazione dei missili. Fortunatamente la crisi si era risolta poi in un nulla di fatto, ma il mondo intero era rimasto col fiato sospeso.
Tra le trattative frenetiche (C) www.ofm.org dell’ultimo minuto si era inserita anche la discreta iniziativa di Giovanni XXIII con un messaggio diretto a Kruscev e Kennedy perché rinunciassero all’uso delle armi. È in questo quadro che deve essere interpretata la Pacem in terris. In fondo, al di là del suo stesso contenuto, era l’intenzione di una efficace parola di pace che appariva significativa. Certo non erano mancate nel passato da parte dei pontefici parole in favore della pace. Quelle di Benedetto XV durante la prima guerra mondiale e quelle di Pio XII durante la seconda erano state vigorose. E tuttavia era mancata in esse l’autorevolezza per farsi veramente udire dal mondo, anche perché non altrettanto vigorosa era stata la condanna delle responsabilità politiche nello scatenare i conflitti.
Al forte grido di pace di Pio XII aveva fatto ombra l’incertezza con cui aveva condannato l’invasione tedesca della Polonia, le cautele nel denunciare i crimini commessi nelle zone di occupazione, i silenzi sulla sorte degli Ebrei. Soprattutto la percezione che tali incertezze e cautele e silenzi fossero dovuti alla preoccupazione per le sorti della Chiesa, al timore dei costi che si sarebbero dovuti pagare, al calcolo di ciò che fosse più conveniente allora e nella previsione dei possibili scenari postbellici.

Una nuova credibilità
L’autorevolezza della Pacem in terris nasceva, invece, dai gesti e dalla personalità di Giovanni XXIII. Era il suo stesso stile di pontificato ad attribuire una nuova credibilità alle sue parole. Dopo gli anni dell’arroccamento contro il mondo moderno e contro il pericolo comunista, della distanza ierocratica e mistica di Pio XII, Papa Giovanni aveva proposto la figura di un pontefice semplice, capace di parlare alla gente comune e a nome della gente comune, farsi portavoce di una umanità quotidiana che prescindeva dalla connotazione politica e ideologica, che attingeva a un sostrato umano più profondo e dava valore alle sofferenze e alle speranze che vi si trovavano.
Era questa la prospettiva dalla quale Giovanni XXIII osservava anche i conflitti e le tensioni più alte. La prospettiva all’interno della quale sembravano conciliarsi la fedeltà alla tradizione, un ottimismo di fondo nella storia dell’uomo e la speranza per il futuro. Così Giovanni XXIII appariva a tutti uomo di pace, a cui non faceva (C) www.ofm.org scandalo lo scambio dei messaggi d’auguri con il capo del Kremlino, né la visita di sua figlia e del genero direttamente in Vaticano.
La Pacem in terris era la parola di pace del pontefice a tutti gli uomini di buona volontà, come era detto nell’indirizzo iniziale. E anche questo segnava una novità significativa rispetto ai precedenti documenti di questo tipo. Certo nel suo contenuto l’enciclica non sfuggiva a un impianto tradizionale: il presupposto che nella vita sociale e politica si desse un ordine naturale delle cose, che esso appartenesse al volere divino e che solo corrispondendo a esso sarebbe stato possibile assicurare al mondo una pace tranquilla. “La pace in terra, anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi, può essere instaurata e consolidata solo nel pieno rispetto dell’ordine stabilito da Dio” , così cominciava.
Era questo l’ordine che “regna negli esseri e nelle forze che compongono l’universo”, quello che emergeva sempre più anche dai progressi della scienza e della tecnica. Certo “con l’ordine mirabile dell’universo continua a fare stridente contrasto il disordine che regna tra gli esseri umani e tra i popoli; quasi che i loro rapporti non possano essere regolati che per mezzo della forza. Sennonché il Creatore ha scolpito l’ordine anche nell’essere degli uomini: ordine che la coscienza rivela e ingiunge perentoriamente di seguire”. I quattro livelli in cui si doveva manifestare questo ordine scandivano anche i capitoli: i rapporti interpersonali, i rapporti dei singoli con i poteri pubblici della loro nazione, i rapporti tra le nazioni, i rapporti con la comunità internazionale. Le colonne su cui l’ordine dell’universo, nelle sue diverse articolazioni si reggeva, erano quelle della verità, della giustizia, della libertà e dell’amore.

Un’enciclica nella storia
Era questo l’impianto che faceva da cornice. Ma, oltre a questo, c’era qualcosa di nuovo. Prima di tutto l’aspetto metodologico: nel descrivere l’ordine generale che caratterizzava i rapporti, l’enciclica non si limitava a una astratta enunciazione di principi, ma verificava come essi emergessero dallo stesso volgersi della storia nei tempi moderni. La promozione dei lavoratori nella vita politica e sociale, l’emancipazione femminile, l’indipendenza nazionale raggiunta dai Paesi del Terzo Mondo, la consapevolezza dell’ingiustizia di ogni discriminazione razziale, erano già tappe importanti nella storia dell’uomo, “segni” che indicavano la direzione da seguire verso la pace.
E, da un punto di vista soprannaturale, erano i “segni” della presenza della grazia, la presenza del Cristo incarnato nella storia, che misteriosamente ma sicuramente sarebbe giunta al suo compimento. La storia dell’uomo non era solo teatro dell’azione del maligno. Era già in sé redenta. Per questo si doveva credere che anche il mondo moderno e la modernità, contro la quale ripetutamente si era abbattuta la condanna dei pontefici precedenti, racchiudessero in sé lo stesso mistero di grazia e che vi si dessero segni in cui riconoscerlo. Ecco, la Chiesa non aveva solo il dovere di insegnare la dottrina del Cristo come fosse una dottrina fuori del tempo, ma essa stessa doveva mettersi all’ascolto della storia.
“In una convivenza ordinata e feconda – diceva l’enciclica – va posto come fondamento il principio che ogni essere umano è persona, cioè una natura dotata di intelligenza e di volontà libera e quindi soggetto di diritti e di doveri che scaturiscono immediatamente e simultaneamente dalla sua stessa natura: diritti e doveri che sono perciò universali, inviolabili, inalienabili”. Questa affermazione dei diritti della persona era dottrinalmente di grande importanza. Fatta propria dal Concilio Vaticano II essa avrebbe costituito per gli anni seguenti il principio fondamentale dell’insegnamento della Chiesa cattolica sulla società.

La condanna della guerra
Tuttavia, nel momento in cui l’enciclica uscì, fecero più scalpore le distinzioni tra “dottrine” e “movimenti”, tra “errore” ed “errante”, che sembravano aprire la possibilità di un confronto dialogico anche con partiti e movimenti di ispirazione marxista. Fu proprio questo che inevitabilmente suscitò grande eco nell’opinione pubblica ecclesiale e politica. In Italia non mancò chi attribuì anche all’enciclica il successo delle sinistre nelle amministrative di quell’anno. La dimensione dialogica era però necessariamente implicita nella prospettiva di pace propria del pontefice.
Quanto alla guerra, essa era il segno più grave della mancanza dell’ordine di pace. Da qui la condanna della corsa agli armamenti, che nel clima internazionale di quegli anni appariva non solo come colpevole spreco di risorse, ma anche come minaccia incombente sul destino dell’uomo. Eppure era proprio dalla diffusa percezione che la guerra non fosse più possibile senza rischi catastrofici che Giovanni XXIII ne fondava la condanna. Sino ad allora la Chiesa cattolica aveva sempre giudicato il ricorso alle armi con molta severità, ma non era mai giunta a una condanna morale esplicita, prevedendo sempre la possibilità di guerre legittime, secondo la complessa dottrina della guerra giusta.
Ora, nella forma solenne di un’enciclica, si giungeva a una condanna che, al di là del significato letterale della formula e delle attenuazioni di cui fu fatta oggetto, parve a tutti come assoluta: “Nella nostra epoca, che si gloria della forza atomica, è contrario alla stessa ragione, considerare la guerra come strumento adeguato per rivendicare i diritti violati”. Su questa affermazione si sarebbero divisi anche i Padri del Concilio, timorosi per la sua radicalità e per le conseguenze politiche che avrebbe potuto avere nella tensione apocalittica tra l’occidente cristiano e i regimi atei del mondo sovietico.
Pubblicata per la pasqua del 1963, la Pacem in terris fu un vero e proprio testamento spirituale dell’anziano pontefice che, già malato, si sarebbe spento all’inizio del giugno successivo. Probabilmente è proprio questa dimensione spirituale, resa preziosa dalla sofferenza e dalla morte, che più di ogni altra permette di cogliere il senso profondo di tutto il documento. La possibilità per la Chiesa di dire una parola in favore della pace, si misura nella sua capacità di dire una parola di condanna della guerra. Questo è possibile solo sulla base della fiducia nell’uomo redento e nella storia oggetto di tale redenzione.
La testimonianza di Papa Giovanni sta forse proprio nell’aver saputo cogliere tale ricchezza nell’umanità quotidiana, nell’avervi scorto i segni della storia e del destino a cui la grazia di Cristo è venuta a liberarla, nell’aver riconosciuto come la comune e profonda aspirazione degli uomini alla pace indicasse il vero fondamento su cui essa poteva essere costruita.

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