Traduttori traditori
Ci pensa la “traduzione ufficiale”.
Come con la Pacem in terris…
Essere “costruttori di pace” come specifico dovere dei credenti: un messaggio chiarissimo, oggi più che mai di drammatica attualità. La Pacem in terris, nell’aprile del 1963, chiamava a un impegno concreto nel mondo per evitare i conflitti tra i popoli e promuovere il rispetto dei diritti umani in tutti i campi e per tutti. Un messaggio molto, troppo deciso, allora come ora. La traduzione vaticana ufficiale pubblicata dall’Osservatore Romano dell’11 aprile 1963, con interventi e aggiustamenti apparentemente di poco conto, in realtà mirati e significativi, ha in generale teso ad attenuare i contenuti più scomodi del testo di Papa Giovanni. Con scelte lessicali, che fuori contesto sarebbero anche sostenibili, qualche piccolo taglio, o lo spostamento di termini nella struttura della frase, è stato sistematicamente sfumato e, in qualche caso, modificato il tono generale.
Agire per la pace
La Pacem in terris è la prima lettera enciclica indirizzata non solo ai vescovi, ma “a tutti gli uomini di buona volontà”. Il Papa si indirizza pure ai “christifidelibus totius orbis” che nell’italiano diventano solo “i fedeli di tutto il mondo” (Enchiridion Vaticanum, 1963-1967, EDB, p. 18: da questa raccolta dei Documenti ufficiali della Santa Sede citiamo le pagine). Fin dalla traduzione del titolo (“De pace omnium gentium in veritate, iustitia, caritate, libertate costituenda” che diventa nell’Osservatore Romano: “La pace tra tutte le genti fondata sulla giustizia, sull’amore, sulla verità”) è chiara l’intenzione di riportare il testo a un’analisi teorica, più che alla sua vera natura di un appello ad agire nel mondo: “La pace deve essere fondata…”: è questo il senso della frase latina che poteva al massimo essere tradotta “Fondare la pace” e che implica in modo inequivocabile l’idea di dover fare, da parte dei destinatari del testo.
La traduzione, invece, sostituendo con il participio passato il gerundivo latino presenta il testo come un discorso astratto sulla pace, inducendo lettori a vederlo più come l’illustrazione di un concetto teorico che come un richiamo concreto all’impegno. In altri punti si ritrova la stessa attenuazione del richiamo all’impegno: ad esempio, a proposito dell’idea della “convivenza fondata sui rapporti di forza”, che, secondo l’originale “nihil humani in se habere dicenda est” (“si deve considerare non avere in sé nulla di umano”) nella traduzione ufficiale diventa semplicemente “non è umana” (33). Nella stessa traduzione netta è poi l’accentuazione del ruolo prescrittivo della norma, che sottende l’immagine di un universo fondato quasi naturalmente sull’“ordine” e sulla morale impartita dall’alto. Viene ribadita la centralità gerarchica della Chiesa quando il sentimento di “paterna carità” (“paternae caritatis sensibus” diventa “universale paternità” (69).
Più avanti, viene eliminata l’apertura ecumenica di uno dei passi più innovativi del testo di papa Giovanni, quando afferma che tra gli altri diritti dell’uomo c’è il “diritto a onorare Dio secondo la retta norma della propria coscienza” (“ad rectae conscientiae suae normam”). La traduzione qui rovescia addirittura il significato, riconducendo il discorso al tranquillizzante “diritto a onorare Dio secondo il dettame della retta coscienza”, che, ovviamente, rimanda tutto al principio d’autorità della Chiesa gerarchica (lo stesso concetto è messo in evidenza dal titolino, aggiunto, come tutti, al testo originale latino) (25). La “necessità dell’autorità”, con la sua “origine divina”, è inoltre spesso collegata all’idea di “ordine”, che in un punto, come in altri (ad usum humaniorem: 92), è del tutto assente nel testo originale (ed è invece sottolineata anche dal titolino).
Dice la traduzione italiana: “La convivenza fra gli esseri umani non può essere ordinata e feconda se in essa non è presente un’autorità che assicuri l’ordine e contribuisca all’attuazione del bene comune in grado sufficiente”. Il latino parlava invece di una convivenza “ben articolata”, “feconda di beni” (bene composita, bonorum feconda) e ribadiva la necessità che “coloro che sono insigniti di una legittima autorità (auctoritate legitima decorati: c’è bisogno di una legittimazione, ma il concetto sparisce nella traduzione) servano le istituzioni (instituta: non l’ordine) e impegnino la loro attenzione e la loro opera all’attuazione, in grado sufficiente, del bene di tutti” (41).
Tra morale e politica
La morale, che pochissimo viene nominata nell’originale, è un concetto chiave nella traduzione. L’ordine “incorporeo” (incorporalis), vale a dire “spirituale”, del testo latino diventa, in tutti i riferimenti, decisamente “morale”: anzi, è l’“Ordine morale che ha per fondamento oggettivo il vero Dio”, secondo un titolino aggiunto (35). Anche l’autorità da “spirituale” diventa “morale” (43), e così, in più punti l’ordine, i contenuti dei cui atti devono essere, secondo la traduzione, “moralmente buoni”, invece che “orientati al bene comune” (ad civitatis prorsum spectent, 45). Così la verità, che è comunque “verità morale”, anche se ciò non era esplicitato, le “norme della giustizia e della rettitudine”, perfino la “legge di natura” (naturae lex, 29, che nell’originale rimanda piuttosto al concetto di “diritti umani”), tutto viene definito nell’accezione di “morale”, mentre spesso viene evitata la parola “coscienza”, che rischierebbe di far intravedere la possibilità di una lettura personale della norma (33; 55; 53; 59; 89-91; 93; 97; 99).
Anche sul piano politico diversi aggiustamenti moderano sensibilmente il contenuto originale. Alcune forzature nelle scelte lessicali conferiscono tutto il testo una coloritura eurocentrica assente nelle intenzioni del pontefice, che anzi centra il suo discorso su un rispetto assoluto di tutti gli uomini, sull’affermazione dell’uguaglianza dei diritti e della dignità di persone, sulla difesa delle minoranze. L’uso, nella traduzione italiana, dei termini “incivilimento”, “sviluppo”, “civiltà”, sottintende un’idea di superiorità del modello occidentale, che il testo originale tende a negare o perlomeno a leggere solo in chiave di maggiori responsabilità rispetto allo sforzo per il miglioramento delle condizioni di tutti. La traduzione auspica per gli altri popoli l’“assimilazione graduale”, un concetto che compare solo in forma molto attenuata nel testo latino, che parla piuttosto di un’integrazione positiva basata sulla consuetudine, gli scambi, gli apporti anche reciproci, l’apertura degli uni verso gli altri (cotidianam cum civibus alio civili cultu imbutis consuetudinem; horum usus et instituta partecipare studeant) che implicano l’idea di desiderio e libera scelta (59; 65; 67).
Forzature e travisamenti
Così nei riferimenti ai problemi economici, la scelta cade sempre su vocaboli più connotati in senso liberista di quanto non lo fossero i corrispettivi latini: è decisivo l’uso di termini come “capitale” e “spirito di iniziativa”, “libera iniziativa”, al posto di vocaboli dal significato generico (res; operis faciendi copia; ut opus libere ipse obeat )(27; 37; 77). Si omette che di fronte al “dinamismo” della società attuale bisogna comunque agire per il bene comune (95) e che gli scambi da promuovere a tal fine sono “di ogni tipo”, non semplicemente scambi evidentemente commerciali (67), come pure a volte viene tagliato il riferimento alla giustizia (63). I “sussidi economici per i cittadini” (pecuniae subsidio civibus, 51) diventano “sistemi assicurativi” (anche privati!) Ma, soprattutto, al diritto alla proprietà privata risulta essere inerente una “funzione sociale”, invece che un “dovere sociale” (munus) (29). E tutto l’assetto qui delineato, fondato sui diritti e sulla giustizia sociale, per la traduzione “è pienamente conciliabile con ogni sorta di regimi democratici”, mentre per l’originale è “congruente con tutti i regimi veramente democratici” (cum quolibet veri nominis popolari civitatis redimine congruere, 45), vale a dire non con i regimi che non sono tali.
Nell’analisi delle dinamiche politiche, inoltre, il testo italiano viene reso più teorico dell’originale attraverso un uso diffuso del termine astratto “i Poteri Pubblici”, che sfuma il ripetuto appello ai “responsabili della cosa pubblica” (ii qui civitatis sunt capita), in carne e ossa, ad agire per il bene comune. Attenuata è, inoltre, nella traduzione, l’intuizione anticipatrice della necessità di un’autorità internazionale (o di un rafforzamento dell’ONU in tal senso) per la tutela dei diritti di tutti e del bene comune (publica universalisque auctoritas, 4450). Ma, dove più è evidente la forzatura del testo, è
L’enciclica non è rivolta solo ai cattolici e ai cristiani, ma, senza distinzioni e senza condizioni, a tutti gli “uomini di buona volontà”, che abitano in qualsiasi parte del mondo, qualsiasi sia la loro etnia, cultura, religione. C’è, per la prima volta, una dimensione universale. Roncalli ricorda la Pentecoste e gli Atti degli Apostoli che tante volte ha commentato: lo Spirito di Dio scende su tutte le nazioni che sono sotto le stelle.
Si parla della pace non come di un sentimento, di una aspirazione futura, per il Regno di Dio dell’aldilà, ma come di qualcosa che va perseguito “adesso”, su questa terra, “nella verità, nella giustizia, nell’amore, nella libertà”.
È richiamato “l’ordine”, de “gli esseri” e delle “forze che compongono l’universo”, a ricordare il messaggio evangelico delle origini: “Cristo è venuto a salvare tutte le cose”. Sono sottolineati i progressi delle scienze e le invenzioni della tecnica. Roncalli aveva cominciato giovanissimo il suo insegnamento di storia studiando i rapporti tra scienza e fede e ricordando la famosa frase attribuita a Galilei: “Io studio come vada il cielo, non come si vada in cielo”.
L’enciclica sottolinea la necessità dell’ordine “nell’essere degli uomini, ordine che la coscienza rivela e ingiunge perentoriamente di seguire” e sottolinea pure le “esigenze del bene comune universale”.
Sviluppa il tema dei “diritti” con argomentazioni semplici, lineari, concrete: il diritto all’esistenza e a un tenore di vita dignitoso (specialmente per quanto riguarda l’alimentazione, il vestiario, l’abitazione, il riposo, le cure mediche, i servizi sociali necessari; il diritto alla sicurezza in caso di malattia, di invalidità, di vedovanza, di vecchiaia, di disoccupazione. Ecco che “scaturisce pure dalla natura umana il diritto di partecipare ai beni della cultura, e quindi il diritto a un’istruzione di base e a una formazione tecnico-professionale adeguata...”. Ecco il diritto a condizioni di lavoro non lesive della sanità fisica e del buon costume... a una retribuzione del lavoro determinata secondo i criteri di giu-stizia, e quindi sufficiente, nelle proporzioni rispondenti alla ricchezza disponibile, a permettere al
lavoratore e alla sua famiglia, un tenore di vita conforme alla dignità umana.
Antonio Thiery
Contro le armi nucleari
Infine, c’è l’indebolimento del giudizio radicale sulle armi nucleari. Il grido di dolore che scaturisce dalla considerazione della potenza distruttiva della bomba atomica viene sfumato: per Papa Giovanni “Aetate hac nostra, quae vi atomica gloriatur, alienum est a ratione, bellum iam aptum esse ad violata iura sarcienda” (80-81). Si traduce invece: “Per cui riesce quasi impossibile pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia”. Nella traduzione scompare la condanna sarcastica dell’era atomica, ma soprattutto la forza di quell’” alienum est a ratione”. Per il Papa è pura follia pensare alla guerra come mezzo per ripristinare i diritti violati (anche qui troppo disinvoltamente è stato tradotto come “strumento di giustizia”). E ancora in questo punto cruciale evidente l’indebolimento della connotazione esortativa del testo originale. Il Papa non dice semplicemente che “È lecito tuttavia sperare” in un incontro positivo tra gli uomini in base alla loro comune umanità, ma chiama a impegnarsi, ribadendo la forza attiva della speranza e della perseveranza nello sforzo di costruire e mantenere la pace (sperandum est, bisogna sperare 81).