AFRICA

Sudan Il cammino difficile

Una delegazione italiana in visita nel Paese africano,
da anni dilaniato da guerra e fame.
Tonio Dell'Olio

Mahmud Mohamed Taqa è uno di quei testimoni sconosciuti che hanno fatto crescere la storia offrendo la propria vita, ma è difficile che qualcuno ne parli o lo ricordi. Mahmud era un islamico sudanese a capo dei Repubblican Brothers, un nonviolento autentico convinto che la maniera di applicare la legge islamica nel suo Paese fosse demoniaca. Per questo motivo il 28 gennaio 1985 fu condannato a morte tramite impiccagione e il suo corpo fu disperso in (C) Lucio Osseri/Archivio Mosaico di pace segno di disprezzo. Il cinque febbraio scorso alcuni strenui nonviolenti sudanesi si sono ritrovati nella casa di Ghazi Suleiman, l’avvocato dei diritti umani, per celebrarne la memoria, ma l’efficiente servizio segreto è intervenuto prontamente, traendo in arresto tutti i partecipanti alla riunione.
L’episodio non è che uno dei tanti che si possono citare per descrivere il clima di mancanza di libertà che ancora si respira in Sudan e di cui abbiamo potuto essere testimoni e osservatori in presa diretta per dieci giorni. Un gruppo formato da sei persone, infatti, espressione di competenze e sensibilità diverse, ha visitato il Sudan in rappresentanza della Campagna italiana Sudan, un popolo senza diritti che, come sanno bene i lettori di Mosaico di pace, è attiva dal 1995. Non gli era stato mai concesso finora di visitare la parte Nord del Paese controllata dal governo islamico di Omar Hassan El Beshir, ma gli spiragli di apertura che sono sopravvenuti soprattutto dopo l’11 settembre, hanno fatto sì che anche ai rappresentanti della Campagna italiana per la pace e il rispetto dei diritti umani in Sudan fosse rilasciato un normale visto d’ingresso.

Progressi reali o maquillage?
I cambiamenti sono sostanziali e palpabili dal momento in cui è mutato l’atteggiamento degli Stati Uniti e di molti altri Paesi occidentali nei confronti del Sudan innanzitutto per due fattori: partecipare dei profitti del petrolio che in Sudan si continua a estrarre e a scoprire di primissima qualità e controllare da vicino i comportamenti di un governo incluso tra i cosiddetti “Stati canaglia” e che indubbiamente ha avuto contiguità e collaborazioni con il terrorismo di matrice islamica.
In questo senso la visita della delegazione italiana ha potuto rendersi conto tanto dei progressi reali quanto delle operazioni di maquillage, ma soprattutto ha avuto modo di constatare come vengono recepiti i progressi dei colloqui di pace in corso ormai da tempo a Machakos (Kenya). Soprattutto la delegazione ha inteso aprire spazi di fiducia e di credito con gli esponenti del governo sudanese che non hanno mai lesinato di accusare la Campagna italiana di faziosità in favore dei ribelli del Sud. Al contrario non abbiamo mai tralasciato di denunciare con determinazione la violazione dei diritti umani da entrambe le parti in una guerra che si trascina tragicamente da venti anni e ha già fatto più di due milioni di vittime dirette. A queste vanno aggiunti i morti per fame e stenti di cui la guerra è causa ultima in un Paese ricco di risorse minerarie, di acqua, di petrolio, di terre fertili…
Dei colloqui di pace e della situazione generale dei “due Sudan” abbiamo parlato con giornalisti e sindacalisti, con catechisti delle comunità cristiane e vescovi, con esponenti del governo (il ministro della giustizia, il presidente del Parlamento, il vice-ministro degli Esteri) e intellettuali, con studenti e diplomatici. Tutti concordano nel giudizio complessivamente positivo e confidano si possa porre fine ad anni e anni di violenze e sofferenze, ma sono in molti a temere che il tutto possa risolversi con un accordo tra i leaders dei due schieramenti che non accompagnerebbe la crescita di una pace autentica per la gente. Efficace l’immagine di un anziano catechista della periferia della capitale: “Tengono ferma la mucca perché qualcuno possa mungerla meglio!”. Il sospetto è che gli utili della pace siano a vantaggio esclusivo dei potenti che oggi si confrontano sul terreno militare e dei Paesi impegnati nella mediazione che vorranno avere la propria parte.

Gli interessi in campo
Non è un caso che il nodo più difficile su cui i colloqui si sono arenati sia la distribuzione delle risorse rivenienti dalle concessioni petrolifere e dalla vendita del greggio.

La Campagna “Sudan un popolo senza diritti” è nata nel 1995 ed è promossa da:
ACLI, ARCI, Amani, Caritas, Cuore Amico, Istituto Missionari Comboniani,
Mani Tese, Nigrizia, Pax Christi, Raggio.

La delegazione che ha visitato il Sudan dal 28 gennaio al 7 febbraio era composta da:

Tonio Dell’Olio (portavoce della Campagna e coordinatore nazionale di
Pax Christi), Cristina Brecciaroli (Amani), Diego Marani (Nigrizia), Matteo Bina
(segretario esecutivo della Campagna), Gino Barsella (Sdebitarsi), Michele
Stragapede (Missionari Comboniani)

Ecco alcune delle realtà e delle persone incontrate nei giorni della visita:

Mons. Dominique Mamberti – Nunzio Apostolico in Sudan, Luigi Costa Sanseverino di Bisignano – Ambasciatore Italiano in Sudan, Mons. Gabriel Zubeir Wako – Arcivescovo di Khartoum, Alfred Taban – Direttore del quotidiano “Khartoum Monitor”, Visite agli sfollati di Wadi Ramli e Jabarona, Gen. Jan Erik Wilhelmsen, – Joint Military Commission (Monti Nuba), Dr. Ahmed El Mufti Khartoum International Centre for Human Rights, Director General, Bjørn Eilertsen – Rappresentante diplomatico norvegese, Autorità locali ed esponenti della società civile della città di Kosti, visita ai villaggi di displaced people di Konbo e Leiar, Ghazi Suleiman – presidente del Gruppo sudanese per i diritti umani, prof. Humri, sindacalista degli insegnati e docente di letteratura araba e inglese, Vescovi riuniti nella Conferenza Episcopale del Sudan, Ahmed Ibrahim El Taher – Presidente del Parlamento del Sudan, Ali Mohammed Osman Yassin – Ministro della Giustizia, Nagib el-Keir – Ministro di Stato per gli Affari Esteri, avv. Abel Alier – già vice presidente del governo sudanese dal 1978 al 1983 e Presidente della Corte de L’Aja.
Sta di fatto che finora a ricavarne il massimo profitto sono le compagnie cinesi, malesi e indiane. A distanza seguono austriaci, francesi e svedesi, mentre i canadesi della Talisman hanno dovuto cedere licenze e attività a causa della forte pressione della campagna sui diritti umani organizzata da alcune realtà di base canadesi. È per questo motivo che la Campagna sarà sempre più fortemente impegnata nei prossimi tempi a promuovere una partecipazione attiva da parte di rappresentanti della società civile sudanese al tavolo dei colloqui.
Ai governi italiani che si sono succeduti negli ultimi anni va dato atto di aver giocato sempre un ruolo di primo piano nella mediazione sul conflitto sudanese, ma vorremmo che il contributo specifico fosse nella direzione di coinvolgimento di più alto profilo delle forze vitali che possono contribuire a una pace stabile e duratura che vada a vantaggio di tutti. Sempre riguardo i colloqui, tra i rischi che si vorrebbero prevenire vi è quello di rendere efficaci gli accordi e prevedere meccanismi di controllo e di verifica.
A quanto pare è stato adottato il meccanismo che finora è riuscito a garantire bene l’accordo di cessate il fuoco sui Monti Nuba (un’area grande quanto l’Austria) che prevede una presenza dispiegata sul terreno e composta da personale militare e civile di alcuni Paesi stranieri e da rappresentanti del governo di Khartoum e dell’SPLA (Esercito di Liberazione del Sudan). Anche se il numero dei componenti questa forza dovrà essere necessariamente più elevato, varrà la pena compiere lo sforzo per rendere concretamente efficaci i risultati degli accordi.

No a un accordo di carta
Con un ragionevole ottimismo i più ritengono che entro la fine di giugno l’accordo sarà siglato prevedendo tutti i passaggi, i tempi e le modalità per garantire le autonomie e l’autodeterminazione del Sud Sudan. In quel momento (ma pare che già vi siano degli anticipi preoccupanti) il problema macroscopico sarà il ritorno a casa degli sfollati (internal desplaced peoples) di cui si calcolano circa 2 milioni nei soli dintorni di Khartoum e dei rifugiati (refugees) che faranno ritorno dal Kenya, dall’Uganda e da tutte le altre aree in cui stazionano solo temporaneamente. È un fenomeno dalle proporzioni impressionanti. Siamo nell’ordine dei sei milioni di persone. Ci sarà una comunità internazionale attenta ad accompagnare e favorire il reinserimento pacifico di questa moltitudine nei propri territori d’origine?
Ai problemi di ordine umanitario si accompagneranno quelli relativi agli equilibri interni alle varie etnie che compongono il mosaico di popoli del Sud. In che modo si pensa di far fronte o di prevenire questo esodo? Non v’è dubbio che come Campagna italiana cercheremo di monitorare e farci voce di coloro che già oggi vivono una situazione di miseria indicibile nelle periferie di Khartoum o nei campi profughi dove l’acqua è un lusso, il cibo una fortuna, la dignità un miraggio.
In molti incontri è emersa anche un’altra prospettiva preoccupante: i finanziamenti promessi e già predisposti da USA, Unione Europea e organismi internazionali. Saranno copiosi e per ogni ambito di emergenza. Siamo preoccupati perché già troppe organizzazioni straniere, che non hanno una tradizione di presenza e non conoscono il territorio, stanno “scaldando i motori” per potersi inserire nei programmi di finanziamento più che di aiuto!
Ma sono tantissime le ONG locali “non governative” che si sono fatte avanti per presentare la propria candidatura. Molte di queste erano sconosciute fino a ieri e alcune sono nate per l’occasione. Non vorremmo che ancora una volta le ultime persone cui arriveranno gli aiuti siano proprio quelli che ne necessitano realmente! La strategia euro-americana punta ad accelerare in questa maniera il processo di pace, ovvero vincolando i finanziamenti alla stipula dell’accordo, ma rischia di provocare la nascita di un accordo di carta, fosse anche carta moneta.

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