Un futuro per il Burundi
Ho passato il mese di dicembre in Burundi. La Diocesi di Ivrea è coinvolta con la missione di Mutoyi, provincia e diocesi di Gitega, l’antica capitale, al centro del Paese. Un sacerdote ha avviato un noviziato per giovani desiderosi di entrare nella Fraternità dei Piccoli Fratelli dei Poveri, a cui viene offerta una sintetica formazione teologica; io sono stato invitato a dare una infarinatura di filosofia. Ho anche visitato i villaggi vicini, dove le Piccole Sorelle dei Poveri fanno presenza umana e pastorale.
Hutu e Tutsi
Pur vivendo appartato in una piccola località ho potuto però cogliere il dramma di questo Paese, diviso tra una maggioranza, 85%, di Hutu (popolarmente: “i corti”), etnia originaria, del ceppo centroafricano, e una minoranza, 15%, di Tutsi (il prefisso “va”, che indica le persone al plurale, li aveva indicati come i Watussi, popolarmente “i lunghi”), etnia nilotica; i Pigmei sono un’assoluta minoranza, svalutata ed emarginata dalle due etnie maggiori.
Prima che arrivassero gli Occidentali (i Tedeschi, poi i Belgi) i re tutsi sposavano delle hutu, dando luogo a un’etnia mista; i Tutsi garantivano l’esercito e la politica, gli Hutu l’agricoltura e la religione. Gli Occidentali con le loro gerarchie, anche religiose, non solo hanno sottratto la religione agli Hutu, ma si sono appoggiati ai Tutsi, emarginando così la maggioranza. Raggiunta l’indipendenza, la minoranza tutsi ha preso il potere, nel timore costante che gli Hutu, sulla base della loro proporzione esorbitante, la emarginasse vendicandosi anche delle umiliazioni subite. Di qui le successive dittature, con l’esplosione – nel 1972 – del primo eccidio di Hutu, in particolare di quelli più acculturati.
Dagli eccidi alla speranza
Nel vicino Ruanda – che ospita un’analoga proporzione di etnie – hanno preso il potere invece gli Hutu, spingendo molti Tutsi a riparare nel Congo. Successivi
In Burundi fu poi assassinato il Presidente hutu, il primo nella storia – e questo ha dato la stura, nel 1998, a una sollevazione popolare hutu, con uccisioni in massa di Tutsi. E questi hanno poi preso il potere, con violenze e nuovi eccidi, proponendo un governo misto (presidente di una etnia e vice presidente dell’altra, con capovolgimento a metà legislatura), ma con l’esercito saldamente in mano ai Tutsi.
Ai primi di dicembre, nell’ennesimo tentativo proposto dalla Tanzania, il gruppo guerrigliero più forte – che inevitabilmente viveva di rapine – ha firmato un accordo di cessazione delle ostilità, con scadenza il 30 dicembre. Potrebbe essere l’inizio di un periodo di maggiore tranquillità, pur non nascondendo le incognite di problemi non risolti.
Anche perché questa situazione che assorbe nelle spese per le Forze Armate la maggioranza di un bilancio già molto povero, fa scendere il Burundi – che pure gode di clima e di un terreno favorevoli ai gradini infimi di sviluppo tra le nazioni; ed è strettamente connessa con la situazione dei vicini territori del Congo, occupati da truppe mercenarie che garantiscono all’Occidente l’acquisto a basso prezzo dei molti minerali (compreso il koltan, preziosissimo per i cellulari).
Dunque, solo una sincera, disinteressata attenzione dell’ONU, in particolare dei Paesi vicini e soprattutto di quelli più sviluppati, potrà garantire al Burundi un periodo di pace e di sviluppo. Credo che dovremmo sollecitarlo anche dai nostri governanti.