Nero. E non solo
L’esperienza di una giornalista radiofonica.
Donna. Donna nera. Giornalista. Di forte personalità. Maria de Lourdes Jesus vive da trent´anni in Italia. È di Capo Verde, oggi italiana di adozione. Divenuta famosa per “Non solo nero”, storica rubrica di Rai 2 sull’immigrazione, conduce oggi la trasmissione di Radio Rai 1 “Permesso di soggiorno”. Sempre sull’immigrazione. Ha ancora nel cuore Capo Verde. Lavora molto per il suo Paese. Non a caso, infatti, è presidente di una associazione, Tabanka, che raccoglie capoverdiani di origine o di seconda generazione e amici italiani amanti delle Isole africane. Tabanka è un termine con cui si indica il luogo d’incontro nei villaggi dell’Africa occidentale, regione da dove provengono le principali etnie che hanno popolato nel corso di tre secoli l’Arcipelago di Capo Verde. L’associazione si impegna per contribuire allo sviluppo integrato delle Isole e alla diffusione della cultura capoverdiana in Italia. Abbiamo incontrato Maria De Lourdes. Tanti anni di esperienza radiofonica, in e per l’Africa, per l’immigrazione, per gli immigrati e le immigrate, per tutelare e promuovere i loro diritti e la dignità così troppo spesso dimenticati. Oggi più di ieri.
Nei confronti dei poveri si è sempre molto generosi in termini di assistenza e nelle situazioni di emergenza. Quanto aiuta a uscire dalla fame un’informazione corretta sulle ragioni che causano la fame stessa, l’analfabetismo e le povertà?
Parlo dell’Africa e penso che il problema maggiore in relazione all’informazione sia l’incapacità di controllare, di frenare questo flusso immenso di informazioni troppo negative del e sul continente. Immagini ripetute, drammatiche, angoscianti. Immagini che da una parte aiutano (forse!) a sensibilizzare le persone ma che, dall’altra parte, rimandano a un Paese che non ha più speranza.
Questo contribuisce a rafforzare nell’immaginario collettivo e nell’opinione pubblica l’idea che l’Africa è morta. È distruttivo. È negativo perché la gente percepisce che non c’è più nulla da fare per questo continente che è comunque destinato a soffrire. È necessario mettere in circolazione un altro tipo di informazione fondato su immagini (non solo fotografiche) più dignitose dell’Africa e delle sue realtà. Ci sono modi e modi di parlare della povertà. Bisogna trovare un nuovo metodo per fare informazione. Metodi che siano in grado di sensibilizzare rispetto alla situazione africana senza cadere nella pietà e senza ledere la dignità di un popolo e di una cultura.
Buona parte della responsabilità dell’attuale sistema informativo e del modo in cui esso si svolge è dei nostri governanti. È chiaro, però, che i “Paesi ricchi” in generale hanno proprie responsabilità perché decidono della vita e della morte di interi continenti. Le loro scelte politiche incidono tantissimo sul futuro africano. Un’informazione corretta che tenga conto della dignità di situazioni e di persone può certamente aiutare l’Africa e le sue genti. Un aiuto che val più di qualsiasi elemosina, personale o governativa.
L’Africa non ha bisogno di elemosina. Una corretta informazione restituisce al Paese ciò che impropriamente le è stato tolto. Bisogna quindi costruire un’informazione diversa perché l’Africa è un Paese diverso. Cerchiamo un nuovo modo di dare informazioni. I giornalisti e i direttori dei giornali cadono spesso nella tentazione di dare effetti speciali per invogliare le persone a comprare il giornale per cui lavorano, anche ledendo la dignità delle persone.
L’altro giorno ho acquistato una rivista che metteva in rilievo una situazione di disperazione descrivendo come il governo danese ha donato cibo per cani ai bambini del Kenya. La fotografia riprendeva una donna senza volto, un’immagine femminile della quale era ripreso solo il seno cadente. Un’immagine forte, in grado di parlare a chi non legge per intero il giornale. Qualcuno, forse, poi approfondisce ma lì per lì resta l’immagine. Anche perché spesso non è previsto affatto lo spazio per l’approfondimento.
Informazione corretta vuol dire anche far sì che gli Africani sappiano. Quali strategie suggerirebbe per l’informazione in Africa?
I mezzi di comunicazione e di informazione esistono anche in Africa e chi si occupa di informazione dovrebbe utilizzarli nel migliore dei modi per offrire informazione alla popolazione. Molti lo stanno già facendo ma non è sufficiente. Non dobbiamo inventare nulla, né occorre importare i modelli che usiamo qui per fare informazione. Dobbiamo valorizzare e rendere accessibili gli strumenti che esistono a vantaggio della popolazione, adattandoli da villaggio a villaggio e da paese a paese.
Nei Paesi in Via di Sviluppo la radio è il mezzo di comunicazione più diffuso. Più della televisione. Lei ha un’esperienza pluriennale di conduttrice radiofonica…
Io lavoro soprattutto con Capo Verde. Sono corrispondente di una radio locale. Noi a Capo Verde abbiamo ritenuto che la musica e le canzoni siano uno strumento utile per fare informazione. In Africa è ancora molto alto il tasso di analfabetismo e attraverso le canzoni si parla con la gente, si comunica, si racconta. I testi delle canzoni parlano del nostro continente e della sua storia. Anche io ho capito molto dell’Africa attraverso le canzoni. Proprio quelle che cantavamo insieme, tutti, e che avevano un linguaggio molto chiaro, condiviso, accessibile a tutti. Molti testi musicali trasmettono bene le ansie, le speranze e i sogni di una dura lotta per l’indipendenza del popolo africano. Certo, è importante anche coinvolgere le persone che contano in questo campo, coloro che cantano testi ascoltati e canticchiati da tutti. Ci sono persone che coinvolgono e che sono ascoltate.
Dopo tanto lavoro all’estero ha deciso di dedicarsi all’informazione in Italia sul tema e sulla questione immigrazione. Quale accoglienza le hanno riservato i dirigenti dei mass media? Il suo programma “Permesso di soggiorno” va in onda alle 5,30 del mattino…
L’orario scelto per la trasmissione è sintomatico di quanta importanza sia data oggi al tema dell’immigrazione. Gli immigrati sono la fascia più debole di questa società. Eppure ad essi si dedica una trasmissione radiofonica che va in onda alle 5,50 di ogni giorno. Sempre allo stesso orario. È importante che la trasmissione sia stata confermata. È già tanto che siamo riusciti a mantenere questo spazio. Ma essa va in onda sempre la mattina molto presto! Non basta un solo programma. È una goccia in mezzo al mare, insufficiente da sola a cambiare qualcosa. Non è altrettanto eloquente e potente quanto la televisione o altre trasmissioni radiofoniche che raggiungono la maggioranza della popolazione. Anche con tutti i limiti delle programmazioni della carta stampata e delle radio, bisognerebbe trovare un orario in cui le persone possano seguire. Sono comunque molto contenta del mio lavoro e consapevole d’avere grandi responsabilità nei confronti degli immigrati perché essi si riconoscono in quello che dico, in quello che faccio e devo trasmettere un’immagine dignitosa delle loro persone, un’idea positiva.
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Provengo da una famiglia di sole donne che non aveva, quindi, una rigida divisione di ruoli tra maschile e femminile. Mia madre ha fatto da madre e da padre. Nessuno di noi in famiglia ha vissuto come un peso l’essere donna. Io e le mie sorelle abbiamo sposato uomini che collaborano molto nella vita familiare e domestica. Provenendo appunto da una famiglia che non ha mai avuto costruzioni preconcette di ruoli tra generi, nessuna di noi riflette nel proprio comportamento il supposto peso di questo fardello legato all’essere donna in un mondo al maschile. Forse per questo non ho grandi difficoltà.
Gli uomini che ho incontrato leggono nei miei atteggiamenti questa sicurezza e questo modo di vivere la mia femminilità. Chi ci è accanto percepisce determinati segnali che inviamo involontariamente. Ecco perché incontro con facilità uomini che non hanno preconcetti forse anche perché mi presente diversamente.
Ricordo molto bene mia madre. Era una donna autonoma nonostante avesse problemi di salute. Era molto forte che è riuscita a essere per noi un punto di riferimento importante, persino nei confronti di nostro padre. Era lei che lavorava. Era a lei che ci rapportavamo. Ecco perché io ho acquisito un atteggiamento forse un po’ aggressivo. Adesso forse un po’ meno, ma nel passato, quando ad esempio mi dovevo rapportare con le istituzioni, assumevo un atteggiamento complessivo che era molto forte e aggressivo, dal modo di vestire al modo di parlare.
Pensavo che se non fossi stata abbastanza preparata avrebbero pensato “Ecco arriva la povera negra…”. Avrei contato di meno. Invece, quando vado in questura, quando mi reco agli aeroporti, mi vesto diversamente e assumo un comportamento di donna che sa difendersi da sé. Nel lavoro non ho avuto grandi problemi. Negli anni Ottanta era la prima volta che in Rai si decideva di trattare la questione immigrazione e non avevo concorrenti in Rai su questo tema.
Quindi tutti mi hanno accettata bene. Ho avuto ottime collaborazioni, una buona redazione composta da gente stupenda e in gamba che mi ha anche aiutata molto nell’inserimento. Non sento di avere tuttora problemi di questo genere e se dovessi averne so di avere gli strumenti per difendermi bene.