Chiesa, sognare insieme

Non è in grado di recare lieti annunzi chi non viene dal futuro.
Brunetto Salvarani

Caro don Tonino, posso domandarti come stai? A dire il vero sono certo che tu stia bene, ora che hai finalmente raggiunto quel posto meraviglioso in cui – immancabilmente – i sogni si traducono in realtà (questa, in fondo, è la nuova Gerusalemme, sono cieli e terra nuovi previsti dal libro dell’Apocalisse). E a te, lo ricordi senz’altro, piaceva sottolineare che una chiesa priva di sogni non è una chiesa autentica, cioè un raduno di gente convocata da Dio a narrarsi vicendevolmente le potenziali meraviglie della vita, ma solo un apparato. Dicevi anche che essere chiesa è la capacità di sognare tutti insieme. Che siamo chiamati a proiettarci verso il futuro, perché non è in grado di recare lieti annunzi chi non viene dal futuro.
Ora tu vivi nel futuro, nel futuro che ognuno di noi spera per sé, ma anche nel futuro del nostro pianeta blu: in quel futuro dove, come Gesù assicurò alla donna di Samaria, le città non saranno più affollate di chiese, né di moschee e neppure di sinagoghe e di luoghi santi di ogni genere, bensì adoreremo Dio, lasciandoci cullare dalle sue braccia dolci – con qualsiasi nome l’abbiamo definito in vita, o persino senza averlo mai conosciuto direttamente – “in spirito e verità”. Dove nessuno potrà strumentalizzare il nome di Dio, o bestemmiarlo gridando “Dio lo vuole!” mentre predica la violenza come unica realistica risoluzione dei conflitti. Noi, invece, quaggiù, siamo ancora costretti ad abitare il limite, a scontare la contraddizione di trovarci immersi in quella dimensione che la buona teologia chiama “già e non ancora”: ma siamo anche invitati, grazie al fatto che ti abbiamo conosciuto da vicino, a prendere sul serio il tuo impegno e le tue parole, le tue lettere e la tua poesia, la tua passione per le chiese e la tua passione per il mondo. Quanta fatica, però, in confidenza…
Tu, da dove ti trovi, vedi bene quanto la nostra chiesa sia povera e limitata, e come spesso tradisca le consegne lasciateci dal Vangelo. E sai bene che noi, tue amiche e tuoi amici, quando diciamo “la chiesa” non alludiamo solo ai suoi pastori, al vescovo di Roma che definiamo “papa”, agli altri vescovi e al magistero, ma anche e soprattutto a noi stessi, cristiani feriali e malandati, pieni di dubbi e troppo spesso incapaci di guardare al di là del nostro naso. Di spaziare per orizzonti meno angusti, come dovremmo fare, senza per questo tradire la fondamentale “fedeltà alla terra” che i profeti autentici come te (ci permetti di chiamarti così?) ci hanno insegnato a percorrere. Di fare nostre davvero, nel sudore del nostro vissuto, le parole d’ordine che lo stesso Giovanni Paolo II, fortunatamente, ogni giorno ci invita ad adottare senza paura: mondialità, interdipendenza, dialogo ecumenico e dialogo interreligioso…
Tu, che avevi lunga la vista del cuore, ti eri accorto per tempo che le cose stavano cambiando per la nostra comunità ecclesiale, e che a nulla sarebbe valso rimpiangere le cipolle d’Egitto nell’esodo che stiamo faticosamente attraversando: la fine del regime della cristianità e il mosaico della fede che contrassegna anche il nostro Paese dopo tanti altri, l’irruzione nel nostro Paesaggio e nel nostro immaginario dell’altro col suo Dio e il suo modo di pregare, la conseguente necessità di rinnovare alla fonte linguaggi e stili di vita… perché tutto ciò può davvero risultare una benedizione per noi, e non una maledizione, come troppi, anche fra noi, purtroppo ritengono!
Tu, che fra i primi avevi intuìto che cercare di salvare il salvabile illudendoci di recuperare spazi e onori con un improbabile ritorno di fiamma da religione civile non ha proprio senso, sapevi bene, perché lo sperimentavi nella tua missione quotidiana, che solo il chicco di grano destinato a morire è in grado di tradursi in frutto copioso. E l’hai tradotto nei tuoi giorni terreni, fino alla fine.

IL PRETE DEL SORRISO
Un prete che conosceva la durezza del Vangelo, ma sapeva farne una poesia
Sono sempre povere le parole quando si è chiamati a dire qualcosa di un amico straordinario, i cui tratti sfuggono alla normalità nostra. Tra i tanti incontri, su cui crebbe una amicizia profonda che credo continui in cielo perché l’amore fa parte della eternità di Dio e dell’uomo, ne voglio ricordare due significativi. Essendo passati tanti anni, mi sfugge la ragione del primo incontro con lui per diversi giorni quando era parroco a Tricase mi pare. Ero parroco in Sicilia e ogni tanto mi vedevo arrivare “un saluto affettuoso” da un certo “don Tonino Bello” fino a quando mi lanciò l’invito a trascorrere qualche giorno da lui a Tricase e dintorni.
Lo scopo era stare insieme. Se dovessi dire quello che mi appariva in don Tonino, era il continuo sorriso dell’anima in tutto. Nelle preghiere, negli incontri, nel farmi gustare la sua terra dove mi mostrava la semplicità e la laboriosità negli uliveti strappati alla roccia. Era un prete che conosceva la durezza del Vangelo, ma sapeva fare del Vangelo, della vita, delle creature, una “poesia” che certamente veniva da un cuore grande, pieno della santità di Dio. Sapeva “inventare” fiori nella realtà che avevano la durezza nelle spine. Lui mi chiamava “maestro”. Poi preferimmo dirci come Gesù “amici”. In altre parole, dove passava, chiunque incontrava, era capace di mettere il profumo dell’amore che è sempre in un uomo di Dio. L’ho rivisto vescovo quando soffriva per tante ragioni, e non solo quelle fisiche. Aveva perso il sorriso, ma sapeva donare il sorriso della croce.
L’altro incontro con don Tonino l’ebbi a Milano il 7 Dicembre 1989. Era l’anno, se non erro, in cui la chiesa italiana aveva composto il documento “Chiesa Italiana e Mezzogiorno: sviluppo e solidarietà”. È consuetudine che la sera di S. Ambrogio, il cardinale tenga un incontro di preghiera e riflessione con le massime autorità della città e il popolo di S. Ambrogio. Il card. Carlo Maria Martini invitò il sottoscritto e don Tonino per commentare il documento, come due testimoni del Sud. Don Tonino si presentò all’appuntamento nel sontuoso vescovado di Milano vestito di clergman come al solito, come fosse l’abito della sua povertà evangelica. Fummo invitati tutti e due, lui e io, a vestirci da vescovi in forma solenne, da pontificale. Per me non fu difficile perché sapendo i “costumi” di Milano mi ero portato il necessario.
Per don Tonino recuperarono gli abiti solenni dei canonici con mantellina. Ci guardammo a lungo negli occhi come fossimo due “marziani” forzati. Non potevamo permetterci di sorridere; ma nei nostri occhi ci fu “sorpresa” e alla fine ci trovammo nelle braccia l’uno all’altro. Mi disse solo: “Ma credimi, Antonio, questi abiti non riescono a nascondere la povertà del cuore, ci fanno apparire senza volerlo, bambini che piacevano a Gesù”. In S. Ambrogio, poi, tenne una lezione sui “I Sud del mondo” che mostrò la ricchezza di cultura e di animo, che strappò un grande applauso.
Ma in fondo don Tonino era “don Tonino” che non riusciva a capire come potesse esistere la cattiveria nel mondo e quindi la violenza e la guerra.
Ci manca tanto oggi quel sorriso di “bambino” caro a Dio e agli uomini vero profeta di pace! Che preghi almeno per noi.

Mons. Antonio Riboldi, vescovo emerito di Acerra
Ti piaceva adoperarti (posso dire: “lottare”?), tu, pastore, per una chiesa povera, semplice, mite, che sperimenta l’umanissimo travaglio della perplessità e condivide coi comuni mortali la più lancinante delle sofferenze, l’insicurezza (e oggi, i sociologi che vanno per la maggiore parlano della nostra come dell’epoca dell’incertezza!): una chiesa sicura solo del suo Signore, e per il resto debole, fragile, bisognosa di tutto. Una chiesa che non medita rivincite, appunto, ma che accetta di mangiare il pane amaro del mondo, condividendone le vicende in chiaroscuro, e che – pur cosciente di essere il sale della terra – non pretende una grande saliera per le sue concentrazioni o per l’esibizione delle sue raffinatezze. Che lava i piedi al mondo – scrivevi proprio così, attingendo a immagini dal sapore squisitamente poetico – senza chiedergli nulla in contraccambio, neppure il prezzo di credere in Dio, o il pedaggio di andare alla messa la domenica, o la quota, da pagare senza sconti e senza rateazioni, di una vita morale meno indegna e più in linea col Vangelo. Che non si limita a sperare, ma organizza la speranza, e ne fa il segno distintivo della sua presenza quaggiù. E che non ha timore che le possa toccare il destino della cisterna, come a Giuseppe figlio di Giacobbe, contro cui i fratelli tramarono dicendo proprio: “Ecco, arriva il sognatore. Uccidiamolo e gettiamolo in una cisterna!”, se tale è il prezzo da pagare affinché i poveri sappiano riscattarsi da tutte le carestie della storia.
In questi mesi, per la verità, stiamo forse cominciando a sperimentare un simile destino, perché abbiamo preso a parlare chiaro su quanto sta accadendo intorno a noi: a dire che gli immigrati non sono della merce o solo della forza lavoro ma delle persone, amate da Dio quanto lo siamo noi, con tanto di anima e individualità; a proclamare il bisogno di una pace vera e la follia assoluta della guerra; a ripetere che il terrorismo lo si vince solo educandoci a vicenda al dialogo e coniugando il bisogno di pace al bisogno di giustizia sociale; a operare contro le simmetriche tragedie dell’islamofobia e dell’antisemitismo… Messaggi, nel complesso, probabilmente sgraditi ai “signori della guerra” e a chi spadroneggia indisturbato sui mercati planetari, non certo a quegli “ultimi” da cui continuamente ripetevi dobbiamo apprendere, come dai nostri migliori potenziali maestri. Personalmente, mi piace pensare che siano queste le tracce iniziali di quella “chiesa del grembiule” che tu prediligevi, una chiesa che sta finalmente cominciando a usare la “parresìa”, secondo lo stile così caro a Gesù: sempre meno prigioniera del calcolo e vestale del buon senso, sempre più capace di farsi permeare dalla profezia e dalla passione per il nemico. Una chiesa che tu – sulle piste di quel Concilio Vaticano II che ci sembra oggi così distante ci hai convinto a sognare, a credere possibile.
Grazie, don Tonino, grazie davvero di tutto! Ti giunga un forte abbraccio da parte di un povero cristiano qualunque, che si sente meno povero quando fa memoria di una testimonianza autenticamente evangelica e profondamente radicale come la tua.

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