Martire cristiano della pace

Il grano, se muore, porta frutto…
Luigi Bettazzi

Carissimo don Tonino,
credo che da lassù più che mai riscontri quanto sia vero quel che diceva Gesù (Gv 12,24): “Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto”. Vedi in quanta gente, in quanti giovani stai portando frutto. E come rimani presente nella mente e nel cuore di quanti Ti hanno conosciuto e amato. Anche se ho un po’ di timore che Tu non sempre sia contento di come Ti esaltiamo o Ti celebriamo, Tu che hai sempre privilegiato – nell’attenzione e nella condivisione – i più poveri e i più emarginati.
Sono anche certo che protesteresti a sentirTi definire “martire”. Tu diresti: “Ho cercato solo di fare il mio dovere e di essere vicino a chi meno conta e più soffre, come ha insegnato e ha fatto Gesù”. Ma l’hai fatto in modo evidente, sei stato “testimone”, e Tu stesso ricordavi che testimone in greco si dice “martire”. Ora se il martirio era pensato una volta come la cosciente accettazione della morte in alternativa alla rinuncia alla fede, s’è poi allargato a ogni uccisione fatta in odio alla fede religiosa, anche se le vittime in quel momento non se ne rendono conto, come è il caso dei Santi Innocenti, inconsapevoli di una strage compiuta in odio a Gesù. Nella lunga prefazione a un libro che descrive la strage di tanti civili sull’Appennino bolognese durante la seconda guerra mondiale (conosciuta come l’eccidio di Marzabotto, cfr. L. Gherardi, Le querce di Monte Sole) don Giuseppe Dossetti denomina “martirio” quella strage perché programmata dai nazisti come affermazione e difesa della ideologia ariana contro quanto poteva ostacolarla, dall’ebraismo al cristianesimo.
Giovanni Paolo II ha poi esplicitamente esteso la nozione di martirio dalla difesa dei dogmi cristiani all’impegno coerente di vita cristiana, proclamando martire San Massimiliano Kolbe, il francescano polacco morto per essersi offerto alla morte in cambio di un suo compagno di prigionia. A questi martiri della fede e della carità unirei i martiri della speranza, quelli cioè che hanno sfidato la morte impegnandosi, in coerenza col Vangelo, per dare speranza ai fratelli.
Ne parlammo a lungo a San Salvador, nel 1990, commemorando il decimo anniversario dell’assassinio dell’Arcivescovo Oscar A. Romero, convertitosi da allineato con la dittatura politica ed economica a propugnatore di giustizia per il popolo oppresso rivendicando situazioni di più equa solidarietà per la grande massa della sua gente,

BRUCIATO D’AMORE PER LA CHIESA
In morte di David Maria Turoldo
L’ultima volta che l’ho visto è stato l’anno scorso. Andai a trovarlo a Padova, in ospedale, vibrava sotto le flebo, come un leone incatenato. E anche quella volta mi ruggì versi d’amore per la chiesa.
Sempre così, padre Turoldo. I suoi ruggiti bisognava decodificarli. Senza la ritrascrizione in chiave d’amore della colata lavica dei suoi sentimenti, si rischiava di provare sconcerto. Quando parlava delle nostre lentezze di pastori, o dei ritardi con cui certe denunce stentavano a partire, o dei pavidi silenzi delle comunità cristiane sui temi della pace e della giustizia, sembrava che tirasse fuori le unghie. Ma bastava guardarlo negli occhi o spiare le inflessioni con cui modulava le caverne della sua voce per accorgersi che sotto il precipitare dei paradossi non si celava la voglia del graffio ma la passione della carezza. Magari una carezza un po’ rude, come quella di un figlio che vuole blandire sua madre, ma nello stesso tempo vuole detergerle il volto macchiato, perché risplenda ancora più bello allo sguardo degli altri.
Padre Davide l’ho incontrato tante volte. Nelle assemblee studentesche della mia terra salentina, nei grandi raduri di pace all’Arena di Verona. Nei meeting festosi dei giovani in cerca di motivi per vivere, e nei ritiri di spiritualità per sacerdoti in cerca di rifondare gli antichi entusiasmi. Nello studio di Sotto il Monte, fucina della sua struggente poesia, e nelle liturgie usuali con il calice tra le mani, pronto come il vescovo Romero a mescolare il suo sangue con quello di Cristo. L’ho sentito tante volte nell’impeto di fuoco contro le violazioni, e negli estuari ma pur sempre inquietanti entro cui si placava il suo genio. L’ho incrociato tante volte nei momenti più drammatici della nostra storia e nei dibattiti travolgenti in cui, dopo aver messo a nudo le nostre ipocrisie, faceva balenare ansie di cieli nuovi e di terre nuove. Ma ho sempre letto, sotto la scorza delle sue immagini, una grande passione per la chiesa. La sua madre chiesa, per le cui labbra, per le lodi del Signore, ha prestato i ritmi della bellezza. C
onfesso che ancora oggi, ogni qualvolta nelle chiese di campagna si levano le cadenze del salmo 22: “Il Signore è il mio pastore, nulla manca ad ogni mia attesa”, mi lascio anch’io afferrare da una incontenibile tenerezza. Penso che “pur se andassi da valle oscura, non avrò a temere alcun male” e mi si allarga l’anima alla speranza. Penso con gioia che “bontà e grazia mi sono compagne, quanto dura il mio cammino” e seguo le piste che mi portano dritto all’incontro con Dio. Ma penso anche a lui: a padre David Maria Turoldo che, negli ultimi due versi di questa splendida traduzione, dissipando ogni equivoco su certi suoi moduli espressivi, ha impresso senza saperlo il marchio di origine controllata nel suo indistruttibile amore per la chiesa: “…Io starò nella casa di Dio , lungo tutto il migrare dei giorni”.

Don Tonino Bello,
Mosaico di pace, marzo 1993
sfruttata da una piccola minoranza di potenti che pur si dichiaravano cristiani, e imponendo ai soldati l’obbligo evangelico di non obbedire a quanti comandavano di sparare sul popolo inerme.
Anche Tu, don Tonino, sfidavi politici, amministratori e una diffusa opinione pubblica, prendendo le difese di Albanesi accolti come fossero bestie, di Marocchini sfruttati e ospitati in condizioni subumane, di famiglie messe sulla strada in nome di una legalità alleata di chi sta già bene. Lo facevi non per scelte politiche, ma per coerenza al Vangelo, per “testimoniare” come un vescovo, come un cristiano debba imitare Gesù nel condividere la sofferenza degli altri, proprio a cominciare da quella dei più poveri, di chi conta poco.
Quando Ti lasciai la responsabilità di presidente di Pax Christi ti rendesti conto che più che mai dovevi privilegiare la missione per la pace, proclamata come la “convivialità delle differenze”, quasi traduzione storica – come solevi dire – del mistero trinitario.
Proprio là, a San Salvador, nel ricordo di mons. Romero e dei martiri gesuiti (in quella cappella potei ricordare il commosso saluto del Papa, venuto a Ivrea qualche giorno prima), avevi confermato il Tuo impegno di “annunciare” la pace, di “denunciare” le ingiustizie, i soprusi che la ostacolavano, sapendo – proprio per coerenza irrinunciabile al Vangelo – “rinunciare” alla propria supremazia difesa a ogni costo, al proprio profitto ottenuto in ogni modo, alla violenza come mezzo usuale di dominio, fino alla disponibilità a rinunciare anche alla propria vita per coerenza a questa missione. In quell’ultimo grande “pellegrinaggio” a Sarajevo, nel dicembre 1992, quando eri già consumato dal male che Ti ha portato alla tomba, Ti eri fatto profeta della nonviolenza come unica strada evangelica che porta concretamente alla pace.
Credo di poter attestare che il male che Ti ha portato alla tomba è partito dall’adesione coerente e attiva all’appello del Papa per la pace contro la guerra del Golfo. Ti impegnasti con generosità in questo annuncio profetico, contestato dai politici, da gran parte dell’opinione pubblica orientata dai mezzi di informazione allineati per la guerra, e purtroppo anche da notevoli settori della chiesa, ivi comprese autorevoli personalità. Questo isolamento, anche all’interno della chiesa, era quello che Ti faceva soffrire. Ricordo che a Firenze, al termine di un acceso dibattito all’Istituto Stensen, volevi dare le dimissioni da presidente di Pax Christi per non coinvolgerla nelle Tue posizioni così determinate. Poi concludemmo che invece dovevi continuare, anche per solidarietà al Papa! Proprio per questo hai offerto la Tua dolorosissima agonia, oltre che per la Tua diocesi di Molfetta, anche per “il popolo della pace”.
Il grano, se muore, porta frutto. Oggi la stessa coerente determinazione del Papa contro la guerra è apertamente condivisa da gran parte della gerarchia e del popolo cristiano. E non solo da questo.
Grazie, don Tonino “martire cristiano della pace”. E continua a volerci bene, a ispirarci, a sostenerci.
Con l’affetto di sempre
Tuo
don Luigi

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