Il valore della diversità La diversità dell'Europa
Nel movimento, in tutte le sue espressioni e nei suoi momenti più rilevanti come ad esempio nel Forum Sociale Europeo di Firenze, è stato finora largamente sottovalutato il ruolo possibile e potenziale dell’Europa. L’Europa è assimilata, tendenzialmente, all’impero. Non credo che sia così. Costruire invece una consapevolezza della possibilità di un ruolo diverso dell’Europa credo che sia importante, anche se non facile.
Le crepe nell’impero
Una diversificazione europea (di Francia, Germania e in parte della Russia) c’è stata nella drammatica vicenda della guerra in Iraq. Naturalmente non si tratta di posizioni cristalline. Nel caso della Francia ha la sua rilevanza certamente il desiderio di continuare a giocare un ruolo da grande potenza e di non accettare di essere annichilita dalla potenza americana: ne è indicativa la rabbia dei francesi quando hanno visto alcune delle ex colonie schierarsi con gli americani. La Russia ha il problema di rialzare il prezzo della propria posizione nel mondo, mentre in Germania la posizione di Schroeder è l’effetto del peso di una società civile rilevante e di una coscienza pacifista profonda. Si tratta di contraddizioni imperialistiche, si sarebbe detto una volta: certamente è così, ma ben vengano, perché è molto meglio questo di un impero globale senza incrinature, con il proprio pensiero unico e con un unico governo mondiale. È anche l’inizio di un processo che produrrà crepe crescenti nella levigata idea di globalizzazione, anche se non credo che ci sia da parte degli europei un disegno, un progetto preciso. Ci sono molte contraddizioni. Eppure credo che dobbiamo guardare con attenzione a questo processo, perché contraddizioni e crepe sono importanti. Il processo di costruzione dell’unità europea è conflittuale, passa attraverso scontri e divergenze e non sempre l’ideale unitario è fondato su ciò che vogliamo.
Le nostre diversità
Una diversità europea c’è già: il Welfare, la centralità del servizio pubblico, la diversità culturale e così via. È vero che è in atto uno smantellamento di questa costruzione storica europea, ma procede con difficoltà, incontrando una grande resistenza. Credo che noi dobbiamo insistere nel rivalutare, anche nei confronti del movimento, la questione della diversità, delle radici di un’Europa che ha un’altra storia e che ha dato luogo a un altro modello di società, che non aderisce pienamente al mercato e ai suoi valori. Marx diceva che il capitalismo in Europa si è sviluppato in presenza di entità e di istituzioni precapitalistiche ancora molto vitali: la chiesa, il mondo rurale, la stessa aristocrazia, che hanno giocato un ruolo in negativo, ma anche in positivo, lasciando, persino nel senso comune, un distacco dai valori del mercato e quindi dell’economicismo. La nostra deve essere anche una battaglia per la ricostruzione della cultura europea,
non solo una battaglia per i trattati internazionali. E quest’ultima la si può vincere solo nella misura in cui si ricostruisce questa identità europea che oggi è fortemente insidiata. L’Europa è diversa perché nel più piccolo spazio geografico esistono e convivono le maggiori diversità, che sono i tanti Paesi europei, affermava saggiamente un filosofo tedesco morto da poco, Gadamer.
In questo quadro, persino le nostre differenze linguistiche – che talora nelle riunioni internazionali ci rendono difficile la comunicazione – sono un valore, perché sono ciò che ci abitua a riconoscere l’altro nella sua diversità. Gli americani sono privi di questa ricchezza, e in questo sono profondamente diversi da noi, perché sono abituati a pensarsi come l’unica società esistente; il fatto che parlino tutti inglese fa sì che non entri nella loro testa che sono possibili anche altri punti di vista diversi da loro. E persino nei nostri amici pacifisti americani è ben radicata l’idea che l’unica società possibile è quella americana e che solo quello è il modello universale. Noi, per forza di cose, per via della storia e della geografia, della cultura e del pensiero, siamo abituati immediatamente a riconoscere l’altro come diverso da noi e questo ha un’enorme importanza anche sul versante dei diritti umani, che per essere realmente universali è necessario siano creati da tutti e con il concorso di tutti. Esiste un imperialismo dei diritti umani molto forte: la determinazione dell’universale è tuttora largamente nelle mani dell’Occidente.
Quando la Carta delle Nazioni Unite sui diritti umani fu approvata, nell’immediato dopoguerra, ci fu un dibattito molto acceso perché molti pensavano che questo avrebbe significato il mancato riconoscimento dell’autonomia e dell’indipendenza della propria cultura, in nome del pluralismo. Io sono convinta che l’obiettivo sia da individuarsi nel tentativo di costruire dei valori universali, e dunque dei diritti universali, ma con la consapevolezza che questo può essere soltanto il risultato di un processo molto complesso e dialogico. Non può essere un apriori che diventa un’imposizione della nostra cultura a tutti quanti gli altri. Da questa idea gli americani sono molto lontani e invece noi europei possiamo avere un ruolo centrale in questa direzione. Una terza questione distintiva dell’Europa è la prossimità della guerra. Noi siamo confinanti con la zona di massima turbolenza e instabilità, anzi l’epicentro dell’instabilità è praticamente dentro i nostri confini, anche in considerazione della candidatura della Turchia a entrare in Europa.
Il ruolo del movimento
È importante recuperare questa diversità: il 15 febbraio scorso ha dato l’immagine che, finalmente, una società civile europea c’è, un movimento europeo c’è e la concomitanza delle manifestazioni ne ha dato prova. Un altro elemento comune europeo che in questo momento merita rilievo è la crescente frattura tra movimenti e partiti: il partito laburista inglese si è molto logorato su tale questione. È un problema centrale se vogliamo che l’Europa giochi un ruolo suo proprio nell’equilibrio mondiale. Io ricordo le famosi END, European Nuclear Desarmament, tutte le battaglie che abbiamo fatto negli anni ‘80: allora l’intreccio con i partiti fu molto forte, anche perché cercato. Oggi non c’è e si ricerca invece, con pari entusiasmo, di dare minore episodicità alle manifestazioni del movimento a livello europeo.
Se vogliamo portare avanti le nostre battaglie, a cominciare da quella sulla Costituzione europea, è importante che il movimento si dia una qualche struttura. È vero, c’è il Social Forum ed è un grande aiuto. Forse, però, dobbiamo creare altro, più specificamente attorno alle questioni della pace. Nel 1991 noi facemmo alcune riunioni nel Parlamento europeo e questo è qualcosa che dobbiamo recuperare se vogliamo fare la battaglia per la modifica della Costituzione. L’Europa ha moltissimi strumenti, anche il processo di Barcellona è di enorme importanza ma – come tutte le cose europee – è anche estremamente ambiguo, perché nella pratica ha dato luogo a un processo unidirezionale sul piano economico e culturale.
Nel Mediterraneo passa la frontiera nord-sud più drammatica del mondo, molto più di quella fra Messico e Stati Uniti, perché le differenze del reddito pro capite fra Maghreb ed Europa sono infinitamente più grandi di quelle che ci sono fra Messico e Stati Uniti. Tutto questo lo dobbiamo assumere come terreno di scontro, riconoscendone le ambiguità, ma anche affrontandolo come un terreno possibile di affermazione di un’identità europea, evitando di oscillare tra la negazione totale di questi temi da parte del movimento e l’accettazione acritica. Il contrasto fra Europa e USA nel dopoguerra sarà molto forte, perché la politica americana ha compiuto un passo drammatico. Un nuovo libro di Antonio Gambino, Perché non possiamo non dirci antiamericani, rappresenta una documentazione molto precisa di ciò che è avvenuto drammaticamente negli Stati Uniti. È poi stato pubblicato un numero di Newsweek su tutto ciò che, in questo momento, si dice e si pubblica in America sull’Europa: fra l’altro, una foto, pubblicata da un giornale americano, con un angioletto decorativo di un caffè europeo e la scritta “gli europei hanno trasformato le chiese in caffè”.
Quando si arriva a questo punto, quando si arriva a cambiar nome alle patatine fritte – non più french fries ma freedom fries – siamo di fronte a una realtà che diventerà sempre più drammatica con la guerra.
A questo ci dobbiamo preparare ricostruendo un ponte con la società civile americana, ma anche e prioritariamente assumendo la nostra diversità europea come un valore.