Dove sono i pacifisti?
Due immagini
1992. Guerra in Bosnia. Due giornalisti dell’Unità ricordano che “In questo clima l’impegno dei pacifisti è straordinario. Uno di loro ha raccontato che mentre se ne stava in una cantina di Sarajevo, sotto le bombe, nel giugno del 1992, un amico gli telefonò dall’Italia per dirgli che su ‘L’Unità’ era uscito un editoriale del direttore intitolato Perché i pacifisti non vanno a Sarajevo? Lui restò di sasso, anche perché in città non c’era solo lui, c’erano un centinaio di pacifisti italiani e altri due o trecento erano disseminati per la Bosnia. Lì capì quanta distanza ci fosse tra i partiti (e i giornali) e la società vera, impegnata in politica, come era il movimento pacifista” (A. Marrone, P. Sansonetti, Né un uomo, né un soldo. Una cronaca del pacifismo italiano del Novecento, Milano, Baldini e Castoldi 2003, pp. 200-1).
2003. Guerra in Iraq. Il 15 febbraio 2003 si svolge a Roma la più grande manifestazione per la pace mai vista in Italia. Dietro lo striscione di apertura “Fermiamo la guerra senza se, senza ma” sfilano, secondo gli organizzatori, 3 milioni di manifestanti (secondo la polizia 650.000). Alla manifestazione, convocata da 400 gruppi e associazioni, aderiscono 350 enti locali e 136 parlamentari. Vengono organizzati 28 treni speciali e 3000 pulman. Duemila agenti sono schierati a controllare i dieci chilometri per raggiungere il palco montato in Piazza San Giovanni.
Fra questi due eventi vi è una sensibilizzazione dell’opinione pubblica. Le manifestazioni pacifiste hanno certa mente goduto di un sostegno massiccio nell’opinione pubblica. Secondo un sondaggio dell’Eurisko (http://www.agicom.it), sono contrarie alla guerra otto persone su dieci e uno su dieci ha manifestato attivamente la sua opposizione. Solo il 15% si dichiara in disaccordo con la dimostrazione del 15 febbraio, e il 44,3% che potrebbe partecipare nell’immediato futuro. Il 15,4 ha esposto una bandiera della pace. Secondo un sondaggio dell’Ispo, condotto il giorno dopo il corteo romano, il 69% dei rispondenti è contrario alla guerra in ogni caso (81% di chi si definisce di sinistra, 77% del centrosinistra, 66% del centro, 41 del centrodestra e 46% di destra), con un aumento complessivo del 5% rispetto al 12 febbraio.
La sfida e la protesta
In questi dodici anni, il movimento della pace cresce e si trasforma. Cosa è successo?
La sfida globale. L’11 settembre del 2001 e la guerra in Afghanistan rappresentano per molti un segnale dell’imbarbarimento di un sistema di capitalismo imperiale – il simbolo del fallimento dell’illusione di poter liberalizzare i mercati senza curarsi delle conseguenze sulle popolazioni. È quello che un documento del Forum sociale mondiale definisce come “guerra globale e permanente”, che “rivela l’altra faccia del neoliberismo, la più brutale e inaccettabile”.
Un ciclo di protesta. Nel luglio 2001, a Genova, con la contestazione al G8 acquista visibilità un nuovo movimento per la globalizzazione dal basso che riempie e riempirà le strade d’Italia e non solo. Infatti, prima di Genova c’è la contestazione alla Organizzazione Mondiale per il Commercio nel dicembre del 1999 a Seattle e il primo Social forum Mondiale a Porto Alegre. Questi eventi testimoniano una dimensione mondiale del conflitto.
Il movimento per la pace ha una funzione prefigurativa rispetto al movimento globale, ma anche un ruolo importante nella costruzione di quei processi di networking organizzativo e contaminazione cognitiva da cui nasce il movimento dei movimenti.
Se, infatti, i cicli di protesta appaiono improvvisi (nell’immaginario, anche degli attivisti, dal vuoto del periodo precedente, i “bui” anni Novanta), in realtà invece essi si costruiscono all’interno di mobilitazioni esistenti, in un intreccio di continuità e innovazione. Il movimento per la pace (insieme alle marce europee contro la disoccupazione e l’esclusione) rappresenta questo importante momento di incubazione “attiva”.
Leggiamo il movimento
La prefigurazione è visibile nella struttura organizzativa, nelle forme d’azione, nel discorso del movimento della pace.
Innanzitutto, l’organizzazione a rete. Spesso lo stesso nome delle organizzazioni pacifiste (Tavola della Pace, Peacelink...) sottolinea alcuni elementi centrali per il movimento per la globalizzazione del basso. Poi la compresenza di gruppi e organizzazioni diverse: il nucleo centrale del pacifismo, ma anche le associazioni di volontariato, i gruppi di solidarietà con il Sud del mondo, i sindacati, i gruppi religiosi, le organizzazioni ambientaliste.
La necessità di arene aperte di dibattito richiamano i Rundetisch del movimento per la democrazia nell’Est Europa e, differentemente dai meri coordinamenti, tavoli, reti, forum, sottolineano l’importanza di arene aperte per un dibattito pluralista tra eguali. In merito alla concezione di democrazia discorsiva, si sottolinea che la democraticità non viene dal diritto di voto a maggioranza ma dalla qualità del processo di costruzione del consenso. Questa evoluzione organizzativa sembra rispondere alla sfida di coniugare diversità e soggettività, superando l’individualizzazione postmoderna senza ritornare a impossibili comunità totalizzanti. Evidenzio altri elementi importanti della struttura organizzativa del movimento per la pace.
a) L’azione diretta nonviolenta dal basso. Il movimento per la pace degli ultimi dieci anni coniuga diverse forme d’azione, dall’educazione popolare al lobbying, ma anche dalle manifestazioni di massa alla disobbedienza civile. Soprattutto sottolinea una diversa concezione della democrazia come non (solo/principalmente) rappresentativa, ma anche (fondamentalmente) partecipativa, riflettendo una concezione della politica come non professionista, ma civile (e di società civile) e una concezione non legalitaria della partecipazione, con elaborazione di forme di azione nonviolenta ma diretta – orientata a influenzare il rule-making, ma difendendo il ruolo della protesta come rule-breaking.
b) Un discorso globale. Il movimento per la pace prefigura un processo di costruzione di ponti tra le diverse specificità, ideologie e sensibilità. In questo senso, negli ultimi dieci anni, c’è un’evoluzione transnazionale, con partecipazione a campagne e azioni sopranazionali, con una specifica attenzione alla dimensione europea, e transtematica, con l’intreccio delle tematiche più specifiche dell’antimilitarismo e del no alla guerra con temi di giustizia sociale (economia di giustizia) e di partecipazione democratica (democrazia internazionale).
Contaminazione
Il movimento della pace non ha solo un ruolo configurativo, ma anche “contaminativo”: di partecipazione attiva alla costruzione del movimento. Negli anni Ottanta e Novanta, le organizzazioni pacifiste si sono impegnate in numerosi e difficili interventi umanitari nei luoghi delle guerre, ma anche nella pratica di diplomazia dal basso e di “solidarietà applicata” (scudi umani a Baghdad, ma anche in Palestina e durante il conflitto nella ex-Jugoslavia).
I rapporti tra numerose associazioni di diversa provenienza (e i loro attivisti) si sono intensificati nel corso di queste iniziative, così come in manifestazioni di massa: dai centomila alla marcia annuale per la pace Perugia-Assisi del 1990 ai 150.000 del corteo a Roma contro l’attacco all’Iraq dopo l’invasione del Kuwait; ancora, nel 1999, al corteo di cento-duecentomila a Roma e poi alla Perugia-Assisi con più di 100.000 partecipanti contro l’invio di truppe in Kosovo, sostenuto dal governo di centro-sinistra.
Nelle Tavole e nelle marce annuali, nei campeggi e negli interventi nelle zone di guerra si sviluppano processi di contaminazione fatti da: costruzione di legami organizzativi tra gruppi, oltre che individui; costruzione di relazioni interpersonali di fiducia; costruzione di ponti cognitivo-simbolici fra temi e problemi; con la costruzione di identità attive ma tolleranti.
Questo certamente porta a un movimento per la pace come parte integrante di un movimento globale. Se “un altro mondo è possibile, costruiamolo insieme”, è lo slogan della marcia Perugia-Assisi del 1999, la stragrande maggioranza degli attivisti intervistati alle varie iniziative pacifiste degli ultimi anni dichiaravano di appartenere al movimento per una globalizzazione dal basso.
I manifestanti del 15 Febbraio non sono nella larga maggioranza alla prima esperienza di impegno pacifista. Circa un quinto sono – o sono stati in passato – membri di organizzazioni pacifiste. Oltre un terzo dei partecipanti è inoltre membro, presente o passato, di partiti o organizzazioni sindacali, mentre la quota di manifestanti provenienti dall’associazionismo sportivo e ricreativo, da quello culturale, da quello religioso o dal volontariato sociale oscilla tra il 30% e il 45% del totale.
Il peso delle esperienze di associazionismo politico e partecipativo, legato in maniera più o meno diretta ai “nuovi” movimenti sociali e alla stagione politica degli anni Settanta (studenti, ecologisti, donne, comitati di quartiere ecc.), varia anch’esso tra un terzo e un quarto del totale. Più limitata (poco meno di un quinto) è l’incidenza degli associazionismi legati a tematiche transnazionali come globalizzazione, diritti umani, rapporti Nord-Sud ecc. che però rappresentano i legami associativi che caratterizzano con maggiore forza la componente centrale dell’attivismo.
Se guardiamo alla partecipazione in eventi di azione collettiva piuttosto che in organizzazioni, l’impressione di un forte radicamento della dimostrazione di Roma nelle pratiche di azione collettiva del nostro Paese viene ulteriormente confermata. Le persone intervistate alla manifestazione del 15 Febbraio presentano, infatti, un coinvolgimento molto forte in azioni di protesta su tematiche sindacali e sociali (72%) e di critica alla globalizzazione neoliberista (55%); forte su razzismo (39%) e diritti umani (36%), in entrambi con una partecipazione particolarmente significativa dei nati dopo il 1971; più basso ma ancora significativo per terzo mondo, ambiente, donne (tra il 22% e il 14%); meno rilevante ma non trascurabile (8%) per il regionalismo (D. Della Porta, M. Diani, Contro la guerra senza se né ma: le proteste contro la guerra in Iraq, in V. Della Sala, S. Fabbrini (a cura di), La Politica in Italia, Edizione 2004, Il Mulino, Bologna 2004, pp. 249-270). Le appartenenze incrociate vengono confermate nel sentimento di identificazione.
Il 65% dei manifestanti di Roma dichiara infatti di avere abbastanza simpatia per il “movimento per una globalizzazione dal basso”, e il 28% di averne molta, per un totale del 93%.
Le sfide
Questo presenta ricchezza, ma anche sfide per il movimento per la pace. La sfida dell’organizzazione. Un movimento con mobilitazioni a fisarmonica ha capacità di costruzione di alleanze e manifestazioni di massa in momenti di campagne contro guerre o minacce contingenti, ma possiede una struttura organizzativa del “nucleo duro” piuttosto debole.
Dal punto di vista della sociologia dei movimenti sociali, si potrebbe dire che il pacifismo ha difficoltà a costituirsi in movimento vero e proprio a causa della carenza di risorse mobilitabili: le organizzazioni pacifiste rimangono di piccole dimensioni, le interazioni con altri attori sono sporadiche, le identità che temporaneamente convergono nelle mobilitazioni per la pace restano ancorate prioritariamente su tematiche considerate come più pregnanti (il genere, il lavoro, l’ambiente, il credo religioso) e stentano quindi a elaborare un discorso comune.
La sfida della diversità. Il movimento per la pace è un movimento a tante anime/ organizzazioni/generazioni/ideologie. Lo spirito “evangelico” rende particolarmente acuto il bisogno di tenere insieme la diversità, confrontandosi anche con diverse concezioni della democrazia: associativa o assembleare, delegata o diretta, decisionista o discorsiva, negoziale o deliberativa. Se tutte queste concezioni sono legittime, la sfida è trovare i tanti punti di equilibrio adatti alle tante diverse situazioni.
La sfida dell’influenza. Il movimento per la pace ha trovato tipicamente alleati istituzionali a sinistra. Gli anni Novanta avevano visto un indebolimento di questa capacità di influenza istituzionale, visibile nell’appoggio dei governi di centrosinistra e guerre variamente definite come interventi umanitari. Negli anni recenti, l’influenza è cresciuta con la capacità di pressione di massa, che permetteva anche di presentare i pacifisti come bacino elettorale. Quando declina la mobilitazione di massa, in genere i canali di influenza dei movimenti su partiti e istituzioni passano attraverso le doppie militanze, che sembrano però tanto più estendersi nella società civile (incluso nelle organizzazioni sindacali) quanto più si riducono nei partiti. Sono sfide per il prossimo decennio che il movimento per la pace e le diverse componenti che ne fanno parte sapranno contribuire ad affrontare.