Storici movimenti
La pace come unica strada per costruire il futuro.
La
storia dell’ARCI è geneticamente intrecciata con quella del movimento per la
pace. Non è strano: un’associazione che l’anno prossimo festeggia i suoi
cinquanta anni ma che affonda le sue radici nel movimento operaio e popolare
dell’Ottocento a nostro avviso non può che essere pacifista. La sinistra
italiana ha un’antica tradizione di pensiero e di azione per la pace, il cui
portato più forte sta ancora scritto a chiare lettere nell’articolo 11 della
Costituzione, che ripudia la guerra. Quel ripudio lo scrissero i costituenti
appena usciti dalla lotta partigiana. Avevano visto gli orrori del fascismo e
del nazismo, avevano visto i campi di sterminio e Hiroshima, erano stati
costretti a combattere armi in pugno, ma le avevano deposte appena possibile per
diventare costruttori di democrazia. Mai più la guerra – questo ci hanno
insegnato. Erano convinti che nel mondo del dopoguerra ci fosse abbastanza
consapevolezza e maturità per costruire un sistema di relazioni internazionali
che espellesse la guerra dalla politica. Credevano nell’ONU, in un sistema di
democrazia globale che riuscisse a prevenire i conflitti, e a risolverli con gli
strumenti della politica e della democrazia. Non era certo perfetta l’ONU:
figlia del suo tempo, segnata fortemente dal potere delle potenze vincitrici
della seconda guerra mondiale e dalla nascente divisione del mondo in blocchi
contrapposti. Ma segnava comunque un salto in avanti enorme nel percorso di
civilizzazione dell’umanità, chiudendo definitivamente – si pensava allora
– la porta all’idea che la guerra potesse essere considerata uno strumento
fra i tanti a disposizione della politica. Noi dell’ARCI ci sentiamo figli e
nipoti di quella storia, di quelle vicende e di quella utopia. Cerchiamo di
essere all’altezza dell’eredità di pensiero che ci hanno lasciato coloro
che poi hanno lottato contro il riarmo atomico, il colonialismo, le nuove guerre
locali, le dittature che hanno insanguinato il pianeta.
Pacifismo
unilaterale
Ci
fu a sinistra un pacifismo unilaterale, che guardava solo alle colpe degli Stati
Uniti dimenticando ciò che succedeva nel campo sovietico, giustificando
l’assenza di libertà, i carri armati, la repressione dei dissidenti. Ma molte
furono in quel periodo le personalità e le forze di sinistra che seppero
guardare al mondo con altri occhi, guidati da senso di giustizia e senza
pregiudizi. A questo approccio facciamo riferimento. Questo pensiero di sinistra
fu determinante nella costruzione del movimento per la pace degli anni Ottanta,
che esplose in Italia e in tutta Europa all’annuncio dell’installazione dei
missili nucleari Pershing, Cruise e SS 20 nei Paesi dell’Europa occidentale e
orientale. In quella esperienza di massa di tipo nuovo – più di mille furono
i comitati locali per la pace che nacquero in tutta Italia – si fondò il
nuovo corso dell’ARCI, un’associazione più moderna, che tendeva a legare
l’insediamento tradizionale dei circoli e delle case del popolo alle dinamiche
dei nuovi movimenti. Per l’Italia l’esplosione del nuovo movimento per la
pace segnava la fine degli anni di piombo, e dell’incubo della violenza. Una
nuova generazione scese in campo. Era una generazione meno vincolata
all’appartenenza ideologica e di partito, aperta alla contaminazione. Laici e
cattolici spesso per la prima volta si trovavano a militare insieme, il pensiero
della sinistra storica si intrecciava con quello della sinistra nuova, con le
esperienze del cristianesimo progressista, con il pensiero nonviolento.
La
vera nonviolenza
La
nonviolenza del movimento degli anni Ottanta non era nonviolenza irenica e
passiva. Era quella di Capitini – di cui si riprese non a caso la Marcia
Perugina-Assisi – era nonviolenza attiva e politica che non rimuoveva il
conflitto, anzi lo rendeva possibile e praticabile da tutti. L’esperienza dei
blocchi nonviolenti di fronte alla base militare di Comiso fu uno spartiacque:
si poteva essere radicali, si poteva resistere perfino alla repressione. Con le
mani alzate era possibile andare in contro ai manganelli e vincere. E potevano
farlo tutti e tutte – senza deleghe ai più forti, ai più coraggiosi, ai più
duri. Quello degli anni Ottanta fu un movimento realmente europeo. Il Muro di
Berlino esisteva ancora, e gli esponenti democratici dell’Est finivano in
galera. Passavamo i confini con i loro documenti nascosti nei vestiti.
Lasciavamo le sedie vuote nei convegni quando i regimi non davano loro i visti.
La politica – di destra e di sinistra – era ancora immersa nella realpolitik,
si trattava con i regimi sperando in un cambiamento. Il movimento era già
oltre. E quando cadde, il Muro non precipitò sulle nostre teste. Il movimento
per la pace quel muro lo aveva già buttato giù, nel socialismo reale non
credeva più nessuno. Le relazioni con l’Est costruite nel movimento contro i
missili ci portarono con molta naturalezza in Jugoslavia, all’inizio degli
anni Novanta. I nostri amici lì ci avevano avvertito in anticipo: “sta
succedendo qualcosa, – ci dicevano – la lotta per il potere prende la forma
del nazionalismo, dell’odio etnico, un grande pericolo è alle porte”. Dieci
anni la nostra associazione è stata dentro le guerre balcaniche, nei campi
profughi, nelle città assediate, nelle enclave affamate. Dieci anni in cui esse
re pacifisti imponeva di stare nei luoghi del conflitto, a sostenere per come
era possibile tutte le vittime, a rompere l’isolamento delle comunità e delle
persone, a difendere l’umanità di chi non voleva cedere alla barbarie. In
mezzo a quell’orrore abbiamo imparato, insieme a tanti altri, che nessuno può
sentirsi al riparo dalla inciviltà, che bisogna tenere sempre alta
l’attenzione – negli esseri umani c’è un principio di violenza e di
sopraffazione che impone un’opera continua di formazione, di critica e di
autocritica. Per questo non ci fidiamo di una Europa che si proclama democratica
a priori. La democrazia si conquista ogni giorno attraverso ciò che si fa –
perché tanto facilmente si precipita nell’abisso della brutalità.
Nelle
guerre
Nel
periodo in cui la Jugoslavia scoppiava, si consumava il sogno della pace in
Israele e Palestina per cui tanto avevamo lavorato. In quella terra avevamo
imparato a superare la logica amico-nemico, avevamo capito che il ruolo del
pacifismo non è solo sventolare la bandiera delle vittime ma cercare di
costruire ponti di dialogo fra le parti in conflitto, per dare davvero una
possibilità alla pace. La catena umana in cui migliaia di palestinesi e
israeliani si diedero la mano prima dei loro leader è una delle
esperienze più forti che stanno nel bagaglio dell’ARCI. La disillusione
seguita a quel momento magico, con la situazione in Medio Oriente sempre più
involuta, ci ha insegnato che non ci si può accontentare dei trattati di pace,
che i processi di pacificazione devono essere monitorati e accompagnati con
rigore, che senza un impegno a realizzare ciò che è stato enunciato è troppo
facile tornare indietro. E ritrovarsi in mezzo al tunnel dopo che si è
intravista la luce genera una enorme frustrazione e può scatenare conflitti
ancora più gravi.
Approdo
a Genova
Così
siamo arrivati a Genova, a Porto Alegre, al Forum Sociale Europeo di Firenze, a
quel movimento no-global che ha prodotto, il 15 febbraio del 2003, la più
grande manifestazione mai realizzata nel pianeta, centodieci milioni di persone
in piazza per cercare di fermare la guerra all’Iraq, per dire no alla follia
della guerra preventiva, per dire no alla logica imperiale dell’unica
superpotenza e alla rivoluzione neo-conservatrice che straccia il diritto
internazionale e ristabilisce il primato della forza. Il movimento no-global
per noi ha significato comprendere che la lotta per la pace e per la giustizia
globale vanno insieme, e che le responsabilità vanno chiamate per nome e per
cognome. Il neoliberismo non è una catastrofe naturale, è una scelta sostenuta
da governi, da forze politiche economiche e sociali con le quali va aperto un
conflitto, contro i quali va costruito uno schieramento ampio e capace di
ribaltare i rapporti di forza. Ed eccoci qui, l’ARCI di oggi, pacifista e
nonviolenta per statuto e per convinzione profonda. Una associazione di
sinistra, che non ha paura di contestare chi, a sinistra, pacifista non è più.
Crediamo di essere stati fedeli alle nostre radici, quando nel 1999 scendemmo in
piazza la vigilia di Pasqua contro un governo di sinistra che bombardava la
Federazione Jugoslava. Crediamo di aver difeso quelle radici a fronte di chi
dimentica la propria storia, e il mandato che essa gli consegna. Così ci
impegniamo a fare anche nel prossimo futuro. Dobbiamo tanto a tanti. Abbiamo
avuto a fianco persone che hanno guidato i nostri passi sulla strada che
sentiamo giusta e a cui dobbiamo storia e identità. Tom Benetollo, che ha
segnato tutto il nostro cammino, insegnandoci a cercare di vivere con umiltà ma
a testa alta, rimanendo fedeli senza paura solo alla verità e alla giustizia.
Ernesto Balducci, Tonino Bello, i nostri amici pacifisti jugoslavi, palestinesi,
israeliani, e tante persone come loro che ancora sono al lavoro e con la loro
vita testimoniano che essere pacifisti è l’unico modo per stare nel futuro.