La forza del no
Comunemente si è portati a pensare che di fronte a regimi dittatoriali, come quello nazista, il potere di dire “no” sia praticamente nullo e che tutti siano, se non sostenitori, almeno accondiscendenti col “capo”. Eppure la storia, non solo quella della Chiesa, da duemila anni è costellata di “casi” di persone, nella quasi totalità “normali”, che hanno sfidato il potere per affermare la propria autonomia e la propria coscienza. Il rischio, tuttavia, è che questi esempi di martiri restino tali, degli esempi cioè, a testimoniare l’eccezione alla regola piuttosto che un modello da seguire. Insomma, è più facile ammirare (o canonizzare) un martire che imitarlo. La vicenda di Franz Jägerstätter, un contadino austriaco che rifiutò di servire nell’esercito nazista in nome della fede cattolica e che per questo fu ucciso nel 1943, è emblematica anche per l’ambiente “cattolico” in cui essa maturò e per quello che oggi dice ai cristiani del XXI secolo. Dobbiamo alla paziente e ostinata opera del trentino Giampiero Girardi e al coraggio di un piccolo editore piacentino se, in pochi anni, sono stati pubblicati due testi che colmano un vuoto di conoscenza nel nostro Paese sul “caso Jägerstätter”.
Dopo aver tradotto, infatti, nel 2000 la biografia “ufficiale” di Jägerstätter, ora disponiamo della preziosa raccolta delle lettere scritte dal carcere e indirizzate alla moglie e alle tre figlie. Si tratta di 21 testi scritti tra il 1 marzo 1943, giorno in cui “oserà questo difficile passo” entrando nella caserma di Enns (dove avrebbe rifiutato l’arruolamento), e il 9 agosto, giorno della sua esecuzione nel carcere di Brandeburgo. Sono pagine piene, oltre che di fede nella misericordia di Dio, soprattutto di amore e affetto per i suoi cari, ma anche di comprensione per quanti non condividono il suo gesto.
E le motivazioni della sua obiezione di coscienza vengono meglio esplicitate nelle cinque lettere non spedite e contenute in questa antologia. Sono testi scritti “con le mani legate”, non solo metaforicamente, dopo il 6 luglio, giorno della sua condanna a morte (i condannati erano incatenati giorno e notte per evitare suicidi), nei quali le vicende personali trasudano una fede matura, alimentata dalla Bibbia (il libro riporta anche 208 annotazioni sulla Sacra Scrittura compilate in carcere) e dalla preghiera quotidiana, che, anche in punto di morte, apre a una prospettiva alta. Si parla del peccato, della misericordia divina, dei doveri del cristiano, della santità. A proposito di quest’ultima, Jägerstätter scrive che “i santi non sono mai stati capiti dagli uomini” e che spesso “sono stati considerati dei pazzi”. E tuttavia “non è dovere di pochi eletti sforzarsi verso la santità, ma di tutti”.
E la santità del condannato Jägerstätter non è altro che fare la volontà di Dio, anche a costo della vita, se questo significa non commettere peccato e rifiutare di prestare cieca obbedienza al potere: “A cosa serve allora saper distinguere tra bene e male?”.
La distanza, che diventa conflitto, tra il comportamento degli uomini e il volere di Dio, tra la coscienza e la storia, traspare anche e soprattutto negli scritti prima del 1943, quelli nei quali Jägerstätter matura la propria scelta. Qui il contadino si confronta con le questioni d’attualità, prima fra tutte l’inconciliabilità tra il cristianesimo e il nazismo (“come è possibile essere allo stesso tempo soldato di Cristo e della rivoluzione nazionalsocialista?”), dalla quale deriva immediatamente quella della responsabilità del singolo nei confronti delle decisioni dell’autorità costituita e la decisione “obbligata” di disobbedire a Hitler. Di Jägerstätter, il cui processo di beatificazione è in corso, ci resta non solo una testimonianza “eroica”, ma soprattutto un esempio da imitare in un’epoca, come la nostra, nella quale la coscienza spesso soccombe all’omologazione.
Franz Jägerstätter, Scrivo con le mani legate, Berti, Piacenza 2005, pp. 231