Piccole ma micidiali
per la complicità degli Stati.
Le armi piccole o leggere sono pistole, fucili, mitra, piccoli mortai. Sono le protagoniste della gran parte della vittime civili dei conflitti “a bassa intensità” in tutto il mondo. E ogni giorno molti governi le usano per “far sparire” oppositori politici, sterminare persone di razze e religioni diverse, uccidere bambini per le strade, spingere intere popolazioni via dalle loro abitazioni. Molti di questi governi queste armi le comprano. E pur sapendo che verranno usate per commettere atrocità, altri le vendono. La proliferazione di questo mercato è un rischio per la sicurezza di milioni di persone, eppure gli Stati stentano ad introdurre criteri autorizzativi e controlli. A livello internazionale non esistono sistemi di controllo e pochissime sono le misure di trasparenza. Insomma, nessuna possibilità di prevenzione del rischio che l’accumulazione di armi in una regione del pianeta possa provocare milioni di morti. Un lungo periodo di crisi e gravi violazioni dei diritti dell’uomo sono spesso alla base dei conflitti armati. Pensiamo, solo negli ultimi anni, alla regione dei Balcani o all’Africa. La proliferazione di armi leggere e i relativi flussi di armi dirette verso queste regioni hanno sempre preceduto tutte le crisi negli Stati, come nel caso dell’area africana sud-sahariana. Infatti, proprio in questa area, i conflitti più importanti (come quelli avvenuti in Sudan, Etiopia, Uganda, Mozambico, Sierra Leone, Ruanda, Burundi, Zaire e Congo) hanno assunto proprio la forma di guerre civili o di operazioni di guerriglia. Dopo il settembre 2001 il “ritornello” (e il clamore) della sicurezza si è sovrapposto a una richiesta che veniva dalla società civile e che finalmente i governi stavano ascoltando: la priorità di introdurre controlli per assicurare che armi leggere non vengano usate per gravi crimini. Per regole a livello nazionale e internazionale. Per un mondo più sicuro.
La conferenza ONU del 2001
La
“Conferenza sui traffici illeciti di armi leggere in tutti i suoi aspetti”,
convocata dalle Nazioni Unite nell’estate del 2001, è stato il primo passo, a
livello internazionale, per affrontare la piaga della diffusione incontrollata e
dell’accumulazione di questo tipo di armi. Nel corso dei lavori,
l’opposizione di USA, Russia, Cina e di altri Paesi arabi e asiatici ha
portato, in sostanza al fallimento dell’iniziativa. Il programma d’azione
che ne è scaturito ha sollevato infatti molte obiezioni da parte delle Ong e
degli istituti di ricerca indipendenti, che hanno sottolineato la debolezza del
programma che si sofferma solo sulla necessità di applicare gli embarghi
dell’Onu, di marchiare le armi, di applicare i controlli alle frontiere e di
distruggere i surplus in particolare nel corso di operazioni di peace
building. Insomma, nessun accento sulla necessità per i governi nazionali
di elaborare misure che assicurino nei trasferimenti il rispetto dei diritti
dell’uomo e del diritto umanitario. Nessun invito a introdurre scrutini
parlamentari sulle autorizzazioni all’esportazione, rapporti annuali
governativi e certificazioni sull’utilizzatore finale. Ma, soprattutto, si è
Ci sono oltre 638 milioni di armi da fuoco nel mondo. Small arms Survey 2002 del Graduate Institute of International Studies di Ginevra, stima, inoltre, la produzione di armi leggere e munizioni in 7,2 miliardi di euro nel 2000. Mille compagnie in 78 paesi. Otto milioni di armi prodotte. I primi tre produttori mondiali, Cina, Stati Uniti e Russia, dominano il mercato.
Le notizie più interessanti il rapporto le documenta nel capitolo dei trasferimenti legali e illegali. Nei dati doganali Contrade del 1999 per armi considerate dai governi “ad uso civile” l’Italia, in dettaglio, è il primo esportatore di fucili “non militari” (108.2 milioni di dollari), il terzo di pistole (19.3 milioni di dollari), il secondo di armi da fuoco da avancarica (8.4 milioni di dollari), l’ottavo di armi sportive (8.7 milioni di dollari). Nel complesso l’Italia è il quarto esportatore mondiale dopo USA, Russia e Gran Bretagna.
La stima del commercio internazionale di armi leggere si aggira sui quattro miliardi di dollari l’anno. Solo la metà di questo mercato è documentato da informazioni alle frontiere o altre fonti ufficiali. Ma ciò che appare sconcertante è che la ricerca documentata che 54 Paesi hanno violato embarghi internazionali di armi leggere. È anche l’Italia è citata. Armi leggere di fabbricazione italiana sono arrivate, nel corso degli anni ’90, attraverso mercati e mediatori senza scrupoli in Rwanda e in Bosnia.
La ricerca dell’Istituto di Ginevra si sofferma quest’anno sull’impatto umanitario delle armi leggere. Ogni anno 300.000 persone muoiono nel corso dei conflitti sotto i colpi di armi da fuoco. La vasta disponibilità aggrava le crisi, complica severamente il lavoro delle agenzie umanitarie e delle Ong e soprattutto rende ardua qualsiasi soluzione pacifica dei conflitti. Insomma, la proliferazione incontrollata di armi leggere è spesso uno dei problemi chiave su cui intervenire.
E.E.
L’Italia delle armi
L’Italia è un esportatore importante, ma gli strumenti di controllo non sono adeguati. Nel nostro Paese alle armi leggere non si applica la legge n.185 del 1990, che detta le “norme sul controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiale di armamento”. Questa normativa è un modello a livello internazionale e attualmente la “Campagna contro i mercati di armi – Difendiamo la legge 185/90”, con l’appoggio di migliaia di persone che si sono mobilitate, la difende dalle modifiche che la ratifica di un trattato internazionale vuole introdurre. Solo i mitra e i mortai ricadono sotto i vincoli e i divieti di questa buona legge, nata in un momento storico in cui l’attenzione era, tuttavia, concentrata sui grandi sistemi d’arma. Insomma, tutte le armi considerate a uso civile, sportivo e da caccia possono essere esportate senza adeguati controlli. Anche a livello italiano si riflette la scarsa attenzione che per anni ha tenuto lontana la questione dell’agenda politica. Ma l’importanza che ha assunto l’uso di armi leggere nei conflitti e nelle crisi dei diritti dell’uomo impone una presa di coscienza dei danni che anche armi di fabbricazione italiana stanno provocando. Impone la necessità di fermare i trasferimenti di armi qualora vi sia il chiaro rischio che vengano usate per compiere violazioni dei diritti umani, crimini di guerra e crimini contro l’umanità.