Quell’enciclica 40 anni dopo
Pacem in Terris, ottava lettera enciclica di Giovanni XXIII, datata 11 aprile 1963, è l’estremo documento di diuturno servizio sacerdotale e di limpida testimonianza, sigillato con sofferenze del corpo e dello spirito, riacutizzatesi mentre il pontefice si disponeva al breve tratto di strada, che l’avrebbe condotto alla more il 3 giugno dello sesso anno.
A motivo di questa coincidenza, quell’insegnamento suscitò enorme impressione e venne accolto come il testamento che il Padre saggio e lungimirante destinava alla Famiglia umana, dilacerata da interessi contrastanti e da avversione insensate e implacabili.
A distanza di quarant’anni risuona ancora nell’aria il primo commento di quel teso magisteriale nell’eco persistente della voce amica :
“In questa enciclica, di mio c’è anzitutto l’esempio che volli dare nel corso della mia esistenza, sull’indicazione del piccolo libro della mia giovinezza: L’uomo pacifico fa più bene che il moto istruito (L’imitazione di Cristo, II, 3).
Egli non si arrogava titoli di maestro, di riformatore, di magico risolutore dei problemi sollevati dalla drammatica situazione del mondo. Pago di assolvere il suo primo dovere di catechizzare con amore e di camminare accanto a tutti i suoi simili, che ascoltava e ammoniva, promosse senza alcun dubbio un’azione capillare per sostenere, contro l’istinto bellicoso, la possibilità della pace; si direbbe, l’ineluttabilità della pace (cfr L. Sturzo. La comunità nazionale e il diritto di guerra, capitoli XIII e XIV. Nicola Zanichelli 1954).
Un mondo non più diviso
Sollecitò governanti e popoli, anzitutto i cristiani, a gettare sul problema uno sguardo più attento. Mentre troppi, anche tra i battezzati, erano come bloccati dalle disquisizioni circa l’eventualità e legittimità della guerra moderna, egli mirava a convincere tutti ad avviarsi liberi e consapevoli alla conquista della giustizia per la promozione integrale della persona. Avrebbe voluto sottrarre gli uomini ai condizionamenti della guerra fredda e condurli, in rapporto a essa, a tale decisione al bene comune, da superare la sfiducia e l’isolamento, sino a rifiutare, a livello di dottrina e di servizio, la divisione del mondo in blocchi contrapposti, proponendo la conversione alla coesistenza e alla collaborazione; e l’avviamento inoltre al confronto della fede con le ideologie che ispirano e talora confondono le coscienze. Suggerì la scelta del disgelo e dell’impegno nell’immane compito di costruire la pace insieme a tutti gli uomini di buon volere.
La prassi segnalata potrebbe compendiarsi con l’aforisma, di cui aveva sperimentato l’efficacia nei suoi anni di Oriente e a Parigi, contenente la quintessenza della sana politica e dell’illuminata pazienza:
“Se regarder sans se défier, se rapprocher sans se craindre, s’entr’aider sans se compromettre.
Guadarsi negli occhi senza sfidarsi; avvicinarsi senza volersi incutere paura, aiutarsi senza compromessi”
(cfr A.G. Roncalli, Souverirs d’un Nonce, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1963, p. 108).
Nell’atto di accettare la segnalazione del “Premio E. Balzan per la Pace” (10 maggio 1963), egli associò al suo nome quello dei suoi antecessori del secolo XX, da Pio X a Pio XII, all’intenzione manifesta di presentarsi all’umanità come sacerdote radicato nell’humus della tradizione apostolica, aperta al clima del nostro tempo. L’albero affonda le radici nel profondo della terra e sempre rinnova i suoi rami al sole delle nuove stagioni.
La luce della divina rivelazione continua a splendere sulla fronte dell’enciclica che, nulla avendo perduto della sua originaria attualità, stimola tutti ad arrendersi all’evidenza del messaggio evangelico e a riflettere sui segni dei tempi. Dio, infatti, parla per bocca dei profeti e attraverso i fatti della storia.
Un impegno permanente.
Molti avvenimenti si sono succeduti nel corso di quarant’anni, evidenziando difficoltà apparentemente insormontabili e insidie costantemente in agguato.
Quanto mai opportuno, pertanto, l’appello Giovanni Paolo II, iscritto sulla prima pagina del 2003 e su tutti i giorni del prossimo anno: “Pacem in Terris impegno permanente”. Solenne invito, non tanto a celebrare i quarant’anni dell’enciclica, quanto a farla oggetto di studio, di approfondimento, di ispirazione.
Dotato di quel realismo che è proprio dei puri, dei semplici, dei contadini e degli artigiani, Giovanni XXIII raccomandò accoratamente il disarmo dei cuori, e scongiurò i governanti di adoperarsi “sinceramente a dissolvere la psicosi della guerra, il che comporta, a sua volta, che al criterio della pace che si regge sull’equilibrio degli armamenti, si sostituisca il principio che la vera pace si può costruire solo nella vicendevole fiducia” (paragrafo 113).
A tanto siamo chiamati; a tanto ci spronano gli operatori di pace di tutti i luoghi e di tutti i tempi: donne e uomini ostinati a proclamare che la pace è necessaria, desiderabile, possibile: donne e uomini abilitati a lottare per essa con la violenza della preghiera e dell’amore, senza desistere mai, “contra spem in spem” (Rm 4, 18), a costo di umiliazione e di emarginazione.
Rimane vero che per la edificazione del tempio della Pace è necessario puntiglioso ardimento, ben più geniale che non occorresse a Michelangelo per sollevare verso il cielo la cupola della Basilica Vaticana, poggiata su quattro enormi pilastri. E a proposito di solido e inattaccabile fondamento, risuona ammonitrice la voce papale:
“La pace rimane solo vuoto suono di parole, se non è fondata su quell’ordine che il documento ha tracciato con fiduciosa speranza: ordine fondato sulla verità, costruito secondo giustizia, vivificato e integrato dalla carità, e posto in atto nella libertà”.
Dalle parole introduttive che affermano categoricamente che: “La pace può essere instaurata e consolidata solo nel pieno rispetto dell’ordine stabilito da Dio”, alle singole parti del documento, ogni proposizione è così legata all’altra, che, se viene meno una, cade tutto il resto: i rapporti dell’uomo con l’uomo, degli uomini con i pubblici poteri, delle comunità politiche tra loro, degli esseri umani e delle singole comunità politiche con la comunità mondiale.
Per la promozione della persona
La pace, secondo Giovanni XXIII, si fonda sul rispetto del dinamismo proprio dell’indirizzo che corre verso la promozione totale dell’uomo, così che tutto il resto – l’economia, l’organizzazione politica, i rapporti tra le nazioni, la ricerca della sicurezza collettiva, il disarmo, la costruzione progressiva di una autorità internazionale efficace – tutto viene ordinato a quest’ultimo fine e riceve da esso significazione e valore.
I pochi superstiti che ebbero le prime confidenze circa il progetto dell’enciclica, e ne seguirono poi la gestazione sino al suo apparire il giovedì santo 1963, che è quanto dire in clima di ardente preghiera, di reciproca fiducia, di animazione apostolica, sono certi che nulla è andato perduto di quanto venne sapientemente proposto per il superamento degli antagonismi e l’instaurazione di nuovi e duraturi rapporti di pace. Sono convinti che la dottrina esposta con vigore e rigore logico, con linguaggio accessibile e comprensibile a tutte le menti, continua a penetrare nelle coscienze come seme gettato nei solchi nell’attesa sicura di germinazione, poste le condizioni le condizioni favorevoli indicate dal magistero papale. Sono certi che il consenso di quella primavera di quarant’anni or sono non è stato effimero, dal momento che un’opinione pubblica, diffusa più che non ci si attendesse, prestò riverente attenzione all’insegnamento del Pontefice romano.
Parve addirittura che gli uomini si volgessero unanimi verso quella mano tesa che aveva sottoscritto il documento, verso quel cuore che aveva offerto all’umanità: la mano di un figlio dei campi, chiamato da Dio alla missione profetica di moderatore universale; il cuore di un padre che, agli inizi del suo servizio pontificale, aveva proclamato : “Tutto il mondo è la mia famiglia”.