Se affonda un continente
A
seconda dei parametri utilizzati è al nono o decimo posto tra i Paesi più
ricchi al mondo. Eppure il Brasile è oggi sull’orlo del baratro. Come
l’Argentina. Come l’Uruguay e il Venezuela. Come l’intera America Latina.
Storie diverse, certo, e situazioni specifiche che accentuano l’una o
l’altra delle ragioni che possono aiutare a spiegare la crisi forse più
devastante che l’intera economia mondiale abbia conosciuto negli ultimi
trent’anni. Ma ci sarà pure qualche motivo se un intero continente, pressoché
in contemporanea, rischia la bancarotta. Perché qui le cose sono oggi ancora più
gravi di quanto avvenne con la crisi delle cosiddette Tigri asiatiche. E anche
il crollo del Messico, per quanto terribile, non si spinse a compromettere
l’intera area per tanto tempo.
Miopia
e corruzione
Qualche
dato, per capire come la crisi sudamericana raggiunga anche noi.
L’interscambio tra Italia e Brasile supera i 4 miliardi di dollari, con alcune
centinaia di imprese nostrane che hanno investito nel colosso sudamericano oltre
7mila miliardi delle vecchie lire. E almeno quattro o cinque banche italiane che
presentano pericolose esposizioni. Ancora: secondo il nostro ministro
dell’Economia, tra le varie cause della gelata sulla crescita nel nostro Paese
ci sarebbe proprio la situazione in America Latina. La sola Argentina, secondo
Tremonti, avrebbe inciso per una cifra pari all’1% del PIL sulle tasche delle
famiglie e degli investitori italiani. E secondo alcune stime, almeno 400mila
italiani avrebbero visto andare in fumo i propri soldi investiti da banche di
casa nostra sulla piazza di Buenos Aires: quando il governo argentino era
additato come allievo modello da Fondo Monetario Internazionale e Banca
Mondiale.
Salvo
poi scoprire che le durissime ricette pseudo-liberiste avevano solo svenduto
settori importanti dei servizi pubblici essenziali e impoverito drammaticamente
la vita delle famiglie medio-borghesi (a quelle povere avevano già provveduto
regimi e governi precedenti). E salvo poi prendere ipocritamente le distanze,
come ha fatto il segretario USA al Tesoro, O’Neill, da quei governi “che
fanno finire i soldi ricevuti come aiuti internazionali nelle casseforti
private”. E qui emergono due dei nodi che accomunano molti dei Paesi
sudamericani: la miopia degli organismi finanziari e la perdurante tradizione di
pesante corruzione. Sul primo punto, basti ricordare che il FMI ha
aspettato la visita (e le condizioni) dello stesso O’Neill a Brasilia lo
scorso 7 agosto, per mettere a punto un prestito di 30 miliardi di dollari al
Brasile che pure lo invocava da mesi. Ma c’era il veto non solo del governo
americano ma anche di buona parte degli ambienti che contano a Wall Street. In
ballo la scadenza delle elezioni presidenziali di ottobre a Brasilia (troppo
forti i timori a Washington di una vittoria della sinistra). E l’aut-aut ai
governi dei Paesi in crisi per dare il via libera alla totale apertura dei
mercati sudamericani allo strapotere dell’economia USA (il modello è quello
del Nafta). Quanto alla corruzione, decenni di dittature militari hanno
distrutto la società civile e le professioni. Se abbiamo problemi in Italia a
diventare un “Paese normale”, figurarsi in America Latina. E si tratta,
comunque, di accuse che, pur se fondate soprattutto per alcune nazioni,
diventano facile e tardivo strumento di ritorsione proprio da chi quei regimi
dittatoriali, prima, e quei governi democraticamente eletti, poi, ha contribuito
non poco a creare o rafforzare. Per non parlare della latitanza che ancora una
volta ha contraddistinto la politica nell’area dell’Unione Europea:
incapace, come del resto avviene generalmente quando sono in gioco FMI e BM, a
darsi una linea strategica autonoma da quella di Washington. Nonostante i
complessi e profondi legami del vecchio continente con l’America Latina.
Crisi
a catena
Come
in un gigantesco domino, così, la crisi argentina (che per altro resta la più
drammatica, dal momento che non si riescono ancora a sbloccare gli interventi
internazionali) è diventata quella di un interno continente. L’Uruguay,
ad esempio, era stato per anni la cassaforte privilegiata proprio di molti
argentini, singoli e gruppi economici, grazie alla sua tradizionale discrezione
in fatto di investimenti stranieri. Oggi a Montevideo la gente scende in strada
con le cacerolas, come a Buenos Aires. Si sono visti saccheggi di negozi,
scontri di piazza e file lunghissime agli sportelli bancomat per cercare di
salvare i propri soldi. Il governo ha deciso di congelare i depositi in dollari
nelle banche pubbliche. Alcuni istituti di credito privati non riescono più a
restituire i soldi ai propri clienti. E nell’area del Mercosur, anche
il Paraguay rischia di finire stritolato in mezzo alle difficoltà dei
propri vicini. In alcuni Paesi, poi, la crisi economica va di pari passo con le
turbolenze politiche. È il caso del Venezuela, dove i pesanti scontri
tra il presidente Chavez e l’opposizione (ma anche il braccio di ferro con gli
Stati Uniti) stanno facendo crollare la produzione industriale, mettendo a
rischio quella del greggio e spingendo alla fuga molti investitori. O del Perù,
dove l’eredità di Fujimori e le continue rivelazioni sulle sue malefatte
accentuano il clima di sfiducia, in una perdurante stagnazione economica, che
rende ancora più difficile realizzare le promesse elettorali di Alejandro
Toledo.
Veti
e alleanze
È
indubbio, ora, che una svolta alla situazione sudamericana arriverà comunque
dalle elezioni presidenziali in Brasile. Una campagna elettorale lunga,
tormentata proprio dallo spettro della bancarotta, con il presidente uscente
Cardoso (che ascrive al suo Plano Real il merito di avere abbattuto
drasticamente l’iper-inflazione e dato stabilità al sistema nazionale) a
sponsorizzare il suo ex-ministro della sanità Serra, che a sua volta mette la
lotta alla povertà ai primi posti del suo programma, ricordando di essere stato
lui a condurre la battaglia sui brevetti contro le multinazionali dei farmaci,
per garantire anche ai meno abbienti il diritto di curarsi dall’aids. Una
campagna elettorale dove gran parte dei candidati è espressione di partiti che,
almeno a leggerne i nomi, si direbbero di sinistra. Da Luiz Inacio “Lula” da
Silva, per l’ennesima volta candidato del PT (il Partito dos Trabalhadores,
che guida il Frente democratico-popular, in cui sono anche i comunisti),
al già citato Serra, socialdemocratico ma appoggiato anche dai conservatori
moderati, fino a quel Ciro Gomes (anch’egli ex-ministro di Cardoso, ma da anni
in rotta con questi) che pure aveva fiancheggiato le giunte militari e oggi si
presenta come candidato di un sedicente Frente Trabalhista (in realtà
espressione della più tradizionale destra sudamericana).
Ma
le stranezze stanno anche nei veti e nelle alleanze che hanno contrassegnato la
campagna elettorale. Se George Soros aveva per primo paventato il rischio di una
nuova Argentina in caso di vittoria di Lula e i circoli finanziari newyorkesi
avevano cominciato a sconsigliare investimenti in Brasile (con il conseguente
crollo della moneta nazionale, il real, ben prima delle elezioni autunnali), con
il passare dei mesi la situazione ha assunto aspetti che possono apparire
paradossali. Come candidato vicepresidente, Lula si è scelto un grosso
imprenditore tessile, Josè Alencar, si è guadagnato l’appoggio di molti
altri industriali e ha finito con l’ottenere la benedizione anche da banchieri
e operatori di borsa. “Mi ha impressionato perché si è rivelato estremamente
maturo, franco e aperto al dialogo”, ha detto di Lula il presidente
dell’associazione delle banche brasiliane, Ferreira: “Il vecchio PT
dogmatico e inflessibile non esiste più”. Persino l’ex-presidente Sarney,
legato alla destra conservatrice e latifondista, ha promesso il suo appoggio al
leader sindacale. Con tanto di stretta di mano tra Lula e quello che egli stesso
aveva in passato definito grileiro, in quanto espropriatore delle terre
dei contadini. “Se facessimo politica in Brasile dialogando solo con quelli
che non abbiamo mai criticato, resteremmo sempre muti”, è stata la
spiegazione di Lula.
Un
colosso fragile
Ma
il successore di Cardoso dovrà fare in ogni caso i conti con una situazione
terribile. Il record assoluto del debito interno fatto registrare ad agosto (62%
del Pil). poco invidiabile primato mondiale, fatta eccezione per l’Argentina,
del “rischio Paese” per gli investitori stranieri (oltre 2.000 punti). Una
disuguaglianza che condanna sessanta milioni di brasiliani a vivere con meno di
30 dollari al mese. E poi la più pesante eredità in negativo dell’era
Cardoso. Un’esplosiva realtà sociale che si esprime nei due estremi
delle megalopoli e delle campagne. Da una parte San Paolo, Rio e le altre grandi
realtà urbanizzate, regno della miseria e della criminalità inarrestabile
(centomila armati nella sola Rio). Dall’altra le riforme mai attuate, a
cominciare da quella agraria, bloccata dagli interessi dei latifondisti e dalle
loro bande armate, nonostante le lunghe battaglie delle organizzazioni dei Senza
Terra e della Chiesa cattolica. Un vincolo preciso rigido c’è comunque:
bilancio 2003 varato da Cardoso sulla base delle ferree regole dettate da USA e
FMI per concedere i 30 miliardi di prestito. Regole che forse potranno ridare
fiato al real e far risalire di qualche posizione la credibilità del Brasile
nelle classifiche macroeconomiche delle società di consulenza di Wall Street.
Ma che ben poco aiuteranno la realtà quotidiana di milioni di brasiliani.
Servono profonde riforme sociali e politiche, contro l’ingiustizia e per
l’allargamento della democrazia. E il Brasile sta lì dimostrare, come tutta
l’America Latina, che sono proprio le linee dirigiste liberiste degli
organismi internazionali a strangolare la vita dei poveri.