Un’informazione alternativa è possibile
Non
è possibile cambiare la società se non si cambia l’informazione e se non si
cambia in particolare il sistema di produzione e diffusione delle informazioni. L’informazione
alternativa è un libro di Carlo Gubitosa, edito dalla EMI (Editrice
Missionaria Italiana, Bologna), che affronta di petto la questione con
l’evidente intento di invitare tutti a fare giornalismo di base. Non tutti
facciamo i filosofi ma tutti siamo filosofi, diceva in sostanza Gramsci.
Da
Gramsci a Berlusconi
Oggi,
parafrasandolo, possiamo dire che, pur non facendo tutti i giornalisti, tutti
siamo giornalisti perché tutti siamo attraversati dalle informazioni; le
informazioni le facciamo rimbalzare noi stessi - chi più chi meno - usando la
nostra capacità di discutere, di analizzare e filtrare, di giudicare, di
collegare i dati e pervenire a nostre personali “scoperte”. Questa funzione
di rielaborazione e diffusione dell’informazione, più o meno critica, fu
oggetto delle analisi di Gramsci sugli “intellettuali” in quei Quaderni
che egli scrisse in carcere. Gramsci giunse alla lucida consapevolezza che
nessun profondo cambiamento sociale si sarebbe potuto ottenere senza una
“conquista” degli intellettuali, lo strato sociale intermedio fra potere
istituzionale e popolo, senza cioè esercitare una “egemonia” culturale
nell’ambito di chi produce e diffonde le idee e le informazioni.
La
lezione di Gramsci è stata appresa con bravura ineguagliabile da un non
comunista: Silvio Berlusconi. Egli, meglio dei comunisti, ha intuito che
la tecnologia innerva oggi le funzioni intellettuali. Il Cavaliere, aggiornando
Gramsci ai tempi attuali, ha compreso che l’egemonia intellettuale passa
attraverso il controllo delle reti e delle “macchine” che confezionano e
diffondono le informazioni. Di fronte a questo scacco matto di Berlusconi alla
sinistra - alla quale Pasolini aveva invano cercato di spiegare la
devastante funzione omologatrice della televisione - oggi molti si chiedono che
fare. E alcuni continuano ancora a discutere su come rivendicare un pezzetto di
televisione in più. Ma la costruzione di una società realmente nuova e
partecipata passa attraverso la progettazione di mezzi di comunicazione che
siano realmente nuovi e partecipati, che rendano quanto mai ampia la gamma dei
protagonisti dell’informazione, che dilatino la funzione del “giornalismo”
anche a soggetti che mai potrebbero mettere piede in uno studio televisivo o in
una redazione di un giornale. Ed ecco allora il valore del libro di Carlo
Gubitosa, che è preceduto da una splendida prefazione di Riccardo Orioles,
in quale, fra le altre cose, scrive: “Fra il Vietnam e oggi, e fra Piazza
Fontana e oggi, è passato un secolo sul piano della tecnologia. Non tanto per i
computer e l’internet in se stessi, quanto per il fatto che un qualunque
ragazzino dei nostri giorni ha in mano una potenza computazionale che un tempo
si trovava a stento in un istituto di fisica nucleare”. Queste parole ci danno
l’idea dei profondi cambiamenti che oggi viviamo, talora come semplici
spettatori, talora con la voglia e la grinta di essere protagonisti, ben sapendo
che anche noi abbiamo o possiamo avere in mano la “potenza computazionale”
di cui sopra.
Giornalisti
contro cittadini
Il
libro di Carlo Gubitosa, mantenendo al centro il rapporto strategico che
intercorre fra informazione di base e telematica, prende in considerazione
questioni quanto mai correlate come l’associazionismo in rete, l’obbligo di
registrazione dei siti web, il sistema operativo “alternativo” Linux,
la dittatura del copyright, la propaganda di guerra, ecc.. Vi sono pagine in cui
viene messo in rilievo il braccio di ferro intercorso fra la “corporazione”
dei giornalisti più tradizionalisti e il mondo della telematica sociale, la
prima intenta a imporre per legge la registrazione dei siti web presso i
tribunali (come se fossero vere e proprie testate giornalistiche con tanto di
corresponsabilità del direttore responsabile per le informazioni pubblicate
anche da terzi) e la seconda tesa a difendere l’articolo 21 della
Costituzione che garantisce a tutti la possibilità di espressione del pensiero
con ogni mezzo, quindi anche con la telematica. Questo braccio di ferro - dopo
alterne vicende - per ora vede ancora vincitori noi liberi cittadini dotati di
computer e della “potenza computazionale” di cui sopra. E tuttavia la
consapevolezza di avere fra le mani tale “potenza computazionale” è quanto
mai scarsa. Ad esempio, nella scuola non si compie una vasta azione intenzionale
di educazione alla scrittura e al giornalismo di base.
Freinet
e Milani
La
caduta di tensione politico-culturale di partiti e intellettuali, che ormai si
contendono il potere anziché cambiarlo, ha portato alla perdita di un
patrimonio pedagogico che faceva perno ad esempio sulla cosiddetta “scuola
attiva” di Célestin Freinet, a cui si ispirò anche don Lorenzo
Milani sperimentando la scrittura in forme innovative e dal basso (si pensi
al metodo di scrittura collettiva con cui fu realizzato il libro Lettera ad
una professoressa). Célestin Freinet ideò la sua “tipografia
scolastica” dopo aver preso parte alla Resistenza, in un’epoca in cui
scrivere e stampare un giornale era un’impresa ciclopica, faticosa e
macchinosa, che richiedeva tanta manualità e tenacia. La “tipografia” di
Freinet rimase un’aspirazione straordinaria che si scontrò con problemi di
ordine pratico i quali oggi - tramite i computer e le stampanti di cui
disponiamo - sarebbero superati e superabili con facilità. Oggi abbiamo i mezzi
ma si è perso lo slancio di Freinet, il quale alla tipografia associava il
metodo delle lettere da inviare nel mondo. Stampare e comunicare con la società
circostante erano i pilastri di una scuola attiva e “popolare”, dove vivere,
comunicare e creare diventavano una sola cosa. Don Milani fu artefice di questa
scuola attiva che portava i ragazzi a farsi giornalisti. Quanto è rimasto oggi
di tutto ciò nelle teorie di tanti nostri esperti di pedagogia? Leggendo i loro
scritti si scopre che il computer e Internet sembrano essere richiamati
unicamente per il senso di modernità e di efficienza che sembrano infondere, ma
se cercate espressioni come “educazione alla pace” o “informazione
alternativa” cercherete invano perché tecnologia e prospettiva di cambiamento
non sono associate.
Per
un’informazione “dal basso”
Nel
documento dei saggi (convocati dall’ex ministro della Pubblica Istruzione Berlinguer)
non era mai citata l’espressione “educazione alla pace”, mentre
ricorrevano tante volte le parole “multimedialità”, “computer”,
completamente sconnessi da una prospettiva di cambiamento che avesse al centro
l’uomo e i valori più alti: la pace, la solidarietà, i diritti umani. Questo
è ciò che si può constatare facendo una ricerca elettronica sul testo del
documento dei “saggi”, e la cosa crea sgomento perché ciò significa che
neppure quei saggi hanno saputo o voluto comprendere il valore rivoluzionario
della “potenza computazionale” che oggi abbiamo o possiamo avere fra le
nostre mani. L’arma nonviolenta - che possiamo contrapporre alla violenza di
altre armi - rimane nel fodero. E mentre alcuni giornalisti hanno in mente di
creare un “bollino blu” per marchiare le buone informazioni scritte in rete
da giornalisti professionisti (“informazioni attendibili”), in modo da
distinguerle da quelle di minor qualità (o “non attendibili”) prodotte dai
non giornalisti, noi che facciamo? Probabilmente urge costruire nella scuola
redazioni- laboratori che diano valore alla scrittura come sistema di
comunicazione sociale e di costruzione- verifica delle conoscenza.
La
scrittura rischia di morire, uccisa dal telefono che ci consente di
conversare a centinaia o migliaia di chilometri di distanza quando fino a
vent’anni fa quasi ogni italiano aveva l’abitudine di scrivere almeno una
lettera al parente lontano. La storia del passato è scritta in lettere che oggi
sono state sostituite da telefonate volatili di cui non rimarrà mai traccia.
Soldati al fronte, emigranti con la valigia di cartone, fidanzate in attesa,
mamme con la penna in mano e un francobollo sulla scrivania, un intero popolo ha
comunicato con la scrittura. Oggi questa letteratura popolare di fatto non
esiste più, le tariffe stracciate di Teledue o di Infostrada, gli SMS da 160
caratteri e le faccine che ridono o piangono, le foto digitali su GPRS hanno
cancellato l’emozione della scrittura. Nella scuola rischiamo di insegnare una
tecnica diventata ormai superflua, superata di gran lunga dal leggere e dal far
di conto (soprattutto il far di conto). Forse educando i giovani a scrivere e
impaginare i propri giornali - ora che la “potenza computazionale” lo
consente - potremo ritrovare il valore individuale e collettivo della scrittura
e il senso che a scuola vale la pena insegnare a scrivere. Ma a che scopo fare
tutto ciò se non vi è il senso e la speranza che tutto ciò può contribuire a
costruire una società altra e migliore? Questo uso “politico” della
scrittura, che distingueva don Milani da pedanti professori e professoresse, è
alla base di un nuovo programma di pedagogia ancora da scrivere. Il libro di
Carlo Gubitosa può aiutarci a fare i primi passi di questo lungo percorso
educativo e civile.