Ma i poveri dov’erano?
Al
Summit si parla anche di povertà e di poveri: nei Millenium Goals si
vuole ridurre la povertà del 50% (solo qualcuno ricorda timidamente che forse
bisognerebbe continuare ad adottare la prospettiva dello sradicamento totale,
di un poverty free planet); si discute di dare l’acqua potabile ai 1.200
milioni di poveri che non hanno accesso a questa risorsa globale, cioè di tutti
- un bene del Creato – bloccandosi poi sul grado di potabilità (sanitation).
Gli ambientalisti suggeriscono ai delegati governativi di alloggiare nello slum
di Alexandra - dove l’acqua fa schifo e non basta per gli homeless che
vi si ammassano e che dista solo qualche km dagli alberghi da sogno di Sandton.
Si programma di sviluppare l’agricoltura dei piccoli contadini e dei poveri in
zone rurali: ma come, se i più poveri sono confinati su terre scarse e già
degradate? Mary Robinson ha ricordato che vivere in un ambiente sano,
avere accesso al cibo e alla salute sono diritti umani fondamentali e non
negoziabili.
Se
aumenta la povertà
Al
Summit i poveri sono un dato statistico, un oggetto di studio e ricerca, al più
una categoria sociologica. È comunque significativo che l’IFAD e il WFP
forniscano (in un workshop dal titolo Rural poor: survival or
resources degradation) alcuni dati. Dei 1.200 milioni di persone che vivono
sotto la soglia della povertà, cioè con meno di un dollaro al giorno o con
meno di 2.100 Kcal/giorno (una dieta sana prevede almeno 2.700 Kcal/giorno),
almeno 900 milioni vivono in zone rurali, cioè il 75%. Tra i poveri
esiste un’ulteriore divisione: stanno aumentando i “poverissimi” (ultra-poor),
cioè coloro che riescono a procurarsi non più di 1.800 Kcal/giorno. Questi
ultra-poveri hanno necessariamente bisogno di sistemi di protezione sociale (safety
nets). Non basta quindi fornire loro strumenti senza un’adeguata
formazione e neppure bastano “interventi umanitari” e assistenziali (charity).
Ad esempio, nel Bangladesh (130 milioni di abitanti) il 47% vive sotto la
soglia della povertà (di questi, l’85% vive in zone rurali) e un quarto sono
gli ultrapoveri (il 93% vive in campagna). Nel dibattito i gruppi indigeni hanno
fatto presente che l’occupazione delle terre e la loro degradazione per
un’agricoltura povera e intensiva sono una conseguenza del problema del latifondo
e di una distribuzione ingiusta delle terre: probabilmente per uno sviluppo
sostenibile dell’agricoltura, l’approccio è quello della sicurezza
alimentare data dalla produzione artigianale di pescatori e contadini piuttosto
che un aumento delle monoculture e dell’agricoltura intensiva. O, peggio,
dell’introduzione degli OGM (sui quali anche le Chiese sudafricane sono
molto critiche).
Worlds
“apart”
La
logistica del Summit è basata su quattro “siti”. Al Sandton Convention
Center si incontrano le delegazioni degli Stati, delle Agenzie ONU e dei
Major groups. Sandton è uno dei quartieri più esclusivi di Jo’burg e il
Convention Center è all’interno di un gigantesco centro commerciale. Per
accedere alle sale dove si svolgono i lavori, i delegati passano tra le vetrine
di Gucci, gli orologi di Cartier, McDonald’s e i jeans Diesel, lo stand
“open air” della BMW che promuove il suo prototipo a idrogeno, ecc..
Il
NASREC è il mondo delle Ong: a sud della città, è una struttura
permanente di expo e fiere. Molte Ong hanno il loro stand per informare o per
vendere prodotti artigianali. Si organizzano centinaia di incontri, dibattiti,
seminari. Per chi non è “del giro” sembra una Babele, talora
autoreferenziale; così come autoreferenziale è spesso il mondo politico e
governativo di Sandton: lontano, distaccato, uno shopping virtuale,
climatizzato. L’impressione è che il mondo delle Ong – soprattutto nei
Paesi del Sud del mondo – si stia configurando come una sorta di middle
class, una borghesia urbana che vive di coordinamento, workshop,
incontri e convegni: una faccia presentabile e simpatica della “società
civile globale”, che piace tanto ai partner (e sponsor) del Nord. Il rischio
è la frattura con i movimenti di base che, non sentendosi rappresentati dalle
Ong, si radicalizzano e si organizzano nello scontro frontale e nella protesta
di piazza.
Ubuntu
Village, vicino a
Sandton, è il luogo culturale e la vetrina del Summit. Stand avveniristici di
governi (Francia, Brasile, Giappone…), di città (Jo’burg, Pretoria…) e di
imprese (pannelli solari, energia eolica, riciclaggio di rifiuti,
telecomunicazioni, dighe…).
Waterdom,
infine, il lussuoso tempio dell’acqua, 45 stand di Organizzazioni
internazionali e di imprese che vivono… d’acqua: potabilizzazione e sanitation.
L’acqua è risorsa e, dunque, business.
Intanto
fuori...
Questi
quattro siti sono collegati tra loro e con una serie di terminal (negli hotel o
nei sobborghi dove alloggiano i delegati – circa 60.000 da 190 Paesi) da un
gigantesco e ben organizzato sistema di autobus-navetta privati a cui si può
accedere solo con il pass del Summit. Molto del loro tempo i delegati lo
passano viaggiando da un sito all’altro su questi autobus. Per aiutare i
delegati, il governo sudafricano ha organizzato un servizio d’accoglienza di
circa 5.000 volontari: ragazzi e ragazze sudafricani, molto gentili e
simpatici, che ti aiutano in ogni circostanza. Molti sono studenti, per altri è
un lavoro temporaneo (tre settimane), un po’ di ossigeno nella difficile
ricerca di un lavoro vero. Per i delegati questi giovani rischiano di essere
l’unico contatto con il Paese che ci ospita, l’unica possibilità di scambio
con il real world che continua a pulsare tutt’intorno al Summit.
Dimenticavamo! Dai giornali sudafricani e da Internet si apprende che in qualche
parte della città ci sono gruppi che manifestano violentemente (lo
supponiamo dalla reazione della polizia: arresti, manganelli e lacrimogeni) per
l’accesso alla terra. Sono il movimento dei senzaterra (landless), dei
profughi ambientali, degli sfrattati dalle gigantesche farm recintate con
il filo spinato. Si tratta di movimenti sociali radicali, spesso non organizzati
e i cui leader non sempre sono figure chiare; chiedono accesso alla terra
buona e all’acqua, ne rivendicano una redistribuzione più giusta – lo
Zimbabwe è solo a qualche centinaio di chilometri a nord. Certo, in una
stagione di siccità che ha compromesso nell’Africa australe diversi raccolti,
il loro grido dovrebbe essere ascoltato dal Summit.
Alcuni
interrogativi
Tra
i “mondi” del Summit (sia tra di loro ma anche dentro ciascuno) esistono
sicuramente delle fratture, una difficoltà di comunicazione, una forte
ambiguità nell’utilizzare le stesse parole, rivestendole di significati
diversi se non opposti. “Sviluppo sostenibile”, per chi? Per tutti o solo
per qualcuno? Sviluppo sostenibile non coincide necessariamente con commercio
sostenibile. Good governance o political convenience? E ancora, la
governance significa che il livello politico deve solo gestire gli
interessi organizzati (gruppi di lobby, associazioni di categoria, corporate…)?
Non c’è responsabilità politica generazionale che tuteli l’avvenire delle
comunità locali? L’orizzonte del medio-termine non deve trasformarsi nel
respiro più ampio di una vision? Il mercato e l’impresa sono l’unico
metro di misura della sostenibilità ambientale e sociale? E chi non è
produttore e neppure consumatore – perché non ha lavoro né reddito –
quale posto ha nella comunità e sul territorio? Deve finire nella discarica o
rinchiuso nelle pieghe ambientali, tra una farm e l’altra, e fatto
vivere o lasciato morire dagli aiuti umanitari e dalle eccedenze alimentari
distribuite dal WFP? L’invadenza del mercato in questo Summit (pare che le
imprese globali abbiano sponsorizzato con milioni di dollari l’ONU per
l’organizzazione dell’evento) è sintomo di un rischio che sta diventando
sempre più reale: la “privatizzazione” della politica, la
“privatizzazione” dell’ONU. Infine, la “privatizzazione” del Creato,
di quelle risorse che appartengono a tutti gli uomini, le donne e i bambini
della terra. L’acqua è l’esempio più evidente: si tenta di spingere verso
una serie di accordi bilaterali, invece che puntare sulla strada dei trattati
internazionali o di un patto mondiale per l’acqua. Con la scusa della
potabilizzazione, si rischia di cedere alle multinazionali dell’acqua minerale
il futuro e la vita di milioni di persone. Con quali garanzie di accesso, per
chi non avrà i soldi per pagarsi l’acqua o abiterà lontano dai centri
commerciali?