La rivoluzione di un’enciclica
È
stata una felice idea quella di Papa Giovanni Paolo II di proporre come tema
della Giornata mondiale per la pace 2003 l’Enciclica Pacem in terris di
Papa Giovanni XXIII, nel suo quarantennio. In realtà quell’Enciclica segnò
un crinale nella storia della Chiesa, ma anche in quella del mondo. S’era
infatti in tempi di guerra fredda, tanto più tesa in occasione della
crisi di Cuba, in cui l’intervento di Papa Giovanni aveva permesso agli USA e
alla Russia di sbloccare un braccio di ferro che stava per sfociare…in una
guerra calda. E questo fu lo stimolo per il Papa a scrivere quest’Enciclica
che, uscita a poco più di un mese dalla sua morte edificante, costituisce quasi
il suo testamento.
Quei
quattro pilastri
Fu
importante, l’Enciclica, perché propose al mondo l’ideale della pace, fino
ad allora strumentalizzato dai vertici comunisti, ma guardata con fastidio da
quelli occidentali a cui imponeva un progressivo disarmo. Per di più presentava
la pace nella sua visuale complessiva (come l’ebraico shalôm), che
include valori o – come dice – poggia su quattro pilastri, che sono
la verità, la giustizia, la libertà, l’amore (oggi diremmo la solidarietà,
che Giovanni Paolo II identificherà con la pace). In realtà la verità, prima
ancora che la verità speculativa (per cui si fanno anche le guerre di
religione) è la verità dell’uomo, il valore di ogni persona umana in quanto
essere umano. Tutte le guerre (come tutte le ingiustizie, le prepotenze, le
violenze) partono dalla svalutazione dell’altro, del nemico, del
diverso, che ci si sente autorizzati a trattare come un essere di serie
inferiore se non addirittura come se non fosse un essere umano: di qui gli
stermini, le torture, le umiliazioni.
Questa
discriminazione tra le persone si estende ai popoli: quelli che si
sentono superiori per sviluppo tecnologico, economico, quindi militare e
politico, organizzano il mondo, ormai globalizzato, secondo i propri interessi;
sapranno presentarsi come i benefattori dell’umanità, ma nel concreto ne sono
gli sfruttatori. È così che le potenze vincitrici della seconda guerra
mondiale, con il loro influsso ricattatorio e i loro “veti”, hanno
praticamente annullato la forza e il prestigio dell’ONU, esaltando la NATO
diventata “difesa dei loro interessi”, condizionando l’economia mondiale
con il movimento delle loro Borse e con istituzioni (Banca Mondiale e Fondo
Monetario Internazionale) che strangolano i Paesi dipendenti e ne impediscono lo
sviluppo (dall’istruzione alla sanità), e regolando il commercio mondiale con
norme ispirate al libero mercato, subito però modificate quando toccano i loro
interessi. Del resto basti vedere cosa le nostre nazioni “civili” han fatto
in America Latina e in Africa, come le nostre “democrazie” si siano
affermate sfruttando le colonie politiche ed economiche, e come ancor oggi la giustizia
sia sempre condizionata agli interessi dei potenti, nelle singole nazioni e
nel mondo: non a caso Giovanni Paolo II nella Sollicitudo rei socialis denunciò
l’esistenza diffusa di “strutture di peccato”.
Quale
libertà per la pace
Tutto
questo mostra l’ipocrisia che usiamo quando esaltiamo la libertà. In
realtà noi perseguiamo non “la” libertà, alimentata in genere dalla
delimitazione della libertà degli altri (come osservava un detto popolare: la
libertà di una volpe in un libero pollaio!), ma “la nostra libertà”. Non
è un caso che le nazioni o i settori più forti di fronte ai problemi più seri
diano la priorità alle soluzioni violente, alle guerre che sono – dice
l’Enciclica – al di fuori della ragione umana, (alienum a ratione)
perché confermano la supremazia militare dei più forti, e di conseguenza la
loro supremazia politica ed economica, e alimentano contrapposizioni preparando
nuove violenze, mentre le soluzioni non violente sono le sole veramente
umane, perché riconoscono le ragioni di chi le ha, anche dei più deboli, e
orientano quindi effettivamente alla pace.
Ne
segue che il quarto pilastro, l’amore (o appunto la solidarietà) non
è una virtù facoltativa, è invece, soprattutto per i popoli più fortunati
(il quinto dell’umanità!), un dovere di giustizia, un compito di
globalizzazione. Dicevo che la Pacem in terris ha segnato un crinale
anche per la Chiesa; e non solo perché il Concilio, allora già aperto,
ne ricevette sollecitazioni e suggerimenti (soprattutto per la Costituzione
sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, la Gaudium et spes, che riprende e
sviluppa anche il tema della pace), ma perché un documento così importante del
Magistero ecclesiale per la prima volta si rivolgeva, oltre che ai cristiani,
anche a “tutti gli uomini di buona volontà”: puntualizzando così che la
Chiesa proprio in forza della sua missione evangelizzatrice è chiamata a
proporre a tutto il mondo i grandi valori umani che Dio ha consacrato facendosi
uomo, e a collaborare con tutti gli esseri umani per la loro realizzazione.
I
segni dei tempi
V’è
nella Pacem in terris la stessa intuizione che portò Papa Giovanni a
proporre un Concilio “pastorale”, non per una svalutazione del
“dogmatico” (come erano stati tutti i Concili antecedenti, convocati per
stabilire dei “dogmi” e per condannare quanti non li accettavano), bensì
nella consapevolezza che i dogmi, cioè le verità, si trovano in Dio come loro
radice e nei singoli esseri umani nella misura in cui li comprendono e li
accettano; e che questa comprensione e accettazione viene condizionata
dall’evolversi delle mentalità e delle situazioni culturali, storiche,
politiche, dai “segni dei tempi”. L’Enciclica indica anche tre grandi
“segni dei tempi” che manifestano questa evoluzione e possono influire
sull’assimilazione della verità: la promozione della donna, la
maturazione sociale e politica del mondo del lavoro, l’indipendenza
delle antiche colonie.
Questa
attenzione alle persone, che accompagna il cammino verso la verità, porta anche
alla distinzione fatta dall’Enciclica (e divenuta poi talora motivo di
contestazioni e diffidenze) tra l’errore e l’errante: quello
va delineato e combattuto, questo va inquadrato nel cammino della storia, della
cultura, del suo ambiente, per saper cogliere quanto di valido vi può essere
anche nell’adesione a un errore e quanto vi è di aperto a sviluppi positivi.
Dopo quarant’anni, la Pacem in terris rimane non solo un pilastro della
storia, civile e religiosa, bensì un messaggio attuale, un programma efficace
per un cammino sincero di pace. In un mondo tendente – nel globo e
all’interno delle singole nazioni – a privilegiare i ricchi e i potenti,
riducendo spesso l’ispirazione e l’esercizio della democrazia a un paravento
ipocrita e formale dell’arroganza e dell’egoismo del potere, ritorna
l’appello della Chiesa latinoamericana che a Medellin nel 1968 poneva
come condizione per l’attuazione del Concilio “la scelta preferenziale dei
poveri”, o l’impegno della CEI nel 1981 a “ripartire dagli ultimi”: se
nella legislazione e nell’esercizio della giustizia, nella sanità e
nell’istruzione si parte dai settori dominanti, si allargherà sempre più la
frattura che il “Rapporto Brandt” dell’ONU nel 1980 definiva come la
crescente divaricazione tra il Nord e il Sud della società e indicava già
allora come la minaccia più grave per l’umanità.
Potremmo
anche aggiungere che questo messaggio di pace che la Chiesa è chiamata a
proclamare sarà tanto più persuasivo quanto più la Chiesa testimonierà al
suo interno questo effettivo rispetto per ciascuno, anche per i più piccoli, i
più poveri, i meno provveduti, questa concreta ansia di giustizia, questo
incoraggiamento alla libertà, con tutti i suoi rischi e le sue complessità,
cosicché la solidarietà risulti non tanto concessione di benevolenza da parte
di chi si trova in situazione di privilegio, ma espressione di autentica
comunione, quasi annuncio del grande mistero di Dio, che è Uno perché
rapporto intimo, unitario, di Tre Persone distinte e uguali.