SUDAN

Tutti contro tutti

Il governo aizza i gruppi locali per rinsaldare il suo potere e così cresce la violenza in tutta la regione. Intervista a Mudawi Ibrahim Adam.
Carla Bellani

Dottor Mudawi, com’è oggi la situazione in Darfur?

Mudawi Ibrahim Adam
Mudawi Ibrahim Adam è un ingegnere responsabile di SUDO (Sudan Develompment Organisation), una ONG sudanese che lavora in diverse regioni del Sudan e in particolare in Darfur. Conosce approfonditamente la situazione della regione tra Ciad e Darfur. Nel gennaio 2005 è stato arrestato e trattenuto in carcere, senza accuse, fino a marzo. In carcere, Mudawi ha iniziato lo sciopero della fame. A maggio 2005 è stato nuovamente arrestato mentre stava lasciando il Sudan, diretto in Irlanda per ricevere un premio sui diritti umani dalle mani della presidenza irlandese. In seguito alla pressione internazionale è stato poi rilasciato.
La situazione è molto difficile. La gente continua a morire. Le milizie sono ancora attive. Il governo porta avanti la politica che ha sempre perseguito: aizzare i gruppi locali l’uno contro l’altro per mantenere saldo il controllo sul territorio. La violenza è cresciuta; il corridoio umanitario che portava aiuti è chiuso per motivi di sicurezza e oltre un milione di persone sono allo stremo. Amnesty International, nel suo rapporto, descrive con precisione le gravi violazioni dei diritti umani e i relativi crimini perpetrati.
Qual è il problema che ha spinto il Darfur, una regione estesa come la Francia, verso la catastrofe umanitaria?
I problemi del Darfur sono ancora quelli del Sudan: il fatto che a Khartoum il 5% delle persone arabe più ricche detengano e controllino in modo esclusivo le risorse e il potere del Paese. La riprova è che il 90% del popolo sudanese vive con meno di 50 dollari al mese e che il Sudan, nonostante tutte le sue risorse, figura al decimo posto dei Paesi più poveri dell’Africa. Poiché i sudanesi non vogliono sottostare a questa élite araba, danno vita a gruppi di ribelli che il governo reprime con la tattica del “divide et impera”. Contrappone tra di loro etnie, culture e partiti: ne favorisce alcuni contro altri e li arma pure. Ha fatto lo stesso nel Sudan del Sud, alimentando la guerra civile per oltre vent’anni, e ora lo rifà in Darfur, un’area periferica sempre marginalizzata dal potere centrale ma che ora chiede di contare politicamente ed economicamente.
Se la questione Darfur è ancora quella del Sudan, come mai la pace del 2005 che ha posto fine alla guerra civile in Sudan non ha toccato anche il Darfur?
Il Comprehensive peace agreement (siglato tra il governo di Khartoum e i ribelli del Sud nel gennaio 2005 ) è solo un pezzo di carta firmato ma che
A quasi due anni dalla firma della pace del 2005, la Campagna Sudan ha cercato di monitorare ciò che avviene nel Paese attraverso un report: Scommessa Sudan: la sfida della pace dopo mezzo secolo di guerra. Un libro edito da Altreconomia, in vendita da poco nelle librerie.
In collaborazione con l’Amministrazione Provinciale di Milano, la Campagna ha anche invitato in Italia tre leader civili sudanesi impegnati per la pace e i diritti umani e che hanno contribuito all’estensione del report stesso: Asha El Karib, Mudawi Ibrahim Adam, Kuku Mary James. Hanno preso parte alle conferenze stampa di Milano e di Roma (a Montecitorio) dove hanno incontrato alcuni esponenti del Parlamento e del Governo.
ha scarso valore. Se si vuole fare la pace, prima si deve dare la pace a tutti i sudanesi e costruire la pace tra la gente. Invece, la trattativa è stata condotta solo tra il governo e lo SPLA, sotto pressione della comunità internazionale che, purtroppo, ha accettato questo stato di cose. Si è così voluto definire “globale” un accordo da cui tante aree del Sudan tra cui il Darfur, sono state escluse. Di conseguenza, la rivolta si è fatta subito sentire in tutte queste zone, all’est come nella regione ovest del Darfur.
Nel maggio scorso ad Abuja, però, è stato siglato anche un trattato di pace per cercare di mettere fine alla guerra in Darfur. E anche questa è una pace “di carta”?
L’accordo di pace di Abuja è assolutamente non inclusivo. Lascia fuori troppi gruppi locali che sono in competizione per le scarse risorse territoriali. Per non parlare della società civile che non è stata minimamente consultata. Si tratta di un semplice accordo di spartizione del potere, imposto peraltro dalla comunità internazionale. Per questo, dopo la pace, la guerra ha ripreso con forza. I clan e le tribù locali, che hanno preso le armi e si sono uniti nello SLA, vedono in questa sigla l’opposizione al governo centrale ma tra di loro, sul terreno, restano molto divisi. Pertanto credo che prima di arrivare a qualsiasi accordo attraverso colloqui internazionali, ci sia bisogno di un dialogo politico Darfur-Darfur, che comprenda tutte le componenti presenti in quella regione. È un processo difficile ma quanto mai necessario. Invece, finora si è navigato a vista a causa delle debolezze strutturali del Sudan: un sistema di governo fragile, una carenza di democrazia, una permanente turbolenza. Ora bisogna invertire la rotta e prendere sul serio la questione del Darfur.
Lei, lo scorso mese, insieme a “Campagna Sudan”, è andato a Montecitorio per una conferenza stampa e alcuni incontri istituzionali. Quali appelli sono stati fatti al mondo politico?
Penso che la comunità internazionale dovrebbe rimettere intorno a un tavolo il governo di Khartoum insieme a tutti i soggetti in causa per trovare una soluzione inclusiva di tutte le realtà del Sudan e per riscrivere la pace
La Campagna Sudan è promossa da ACLI Milano, ACLI Cremona, AMANI, ARCI, Caritas Italiana, Mani Tese, Missionari Comboniani, Missionarie Comboniane, Pax Christi. Opera in collaborazione con la società civile sudanese e con network internazionali.
Ha sostenuto i processi politici e sociali volti al raggiungimento di una pace rispettosa delle diversità etniche politiche e religiose della popolazione. Ha organizzato numerose iniziative di confronto e dibattito tra esperti politici ed esponenti della società civile sudanese e internazionale sui temi cruciali per raggiungere la pace nel Paese.
partendo dal basso e non dai vertici. Invece, con la risoluzione 1706 dell’ONU ora puntano a inviare i Caschi Blu in Darfur. Ancora una volta la soluzione del problema viene spezzettata e regionalizzata. Si ripete lo stesso schema applicato al Sud: una trattativa parziale e poi a pace firmata, l’invio dei Caschi Blu. Ma la storia dice che a Juba, capitale del Sud, gli scontri non sono cessati con l’arrivo delle forze ONU e la città non è sicura perché le varie fazioni non hanno abbandonato le armi. Prima di mandare i peacekeepers in Darfur bisogna costruire la pace tra le parti e tra la gente perché le truppe non possono portare la pace.
È vero che in Darfur c’è molto petrolio? Che conseguenze può avere sullo sviluppo del Sudan?
Le grosse risorse di petrolio non sono localizzate in Darfur, ma nel sud del Sudan dove sono attivi molti impianti di estrazione i cui proventi per ora sono serviti a finanziare la guerra. L’oro nero sta diventando un problema crescente: durante la guerra civile, il Sudan esportava greggio per 400 milioni di dollari l’anno, ora abbiamo raggiunto quota 2 miliardi. Dove finiscono questi introiti? Probabilmente sono usati per l’acquisto di armi e materiale bellico dai cinesi che hanno in mano il business petrolifero, oltre che essere presenti anche nelle infrastrutture e nel commercio. Non vanno certo nelle mani dei sudanesi gran parte dei quali continua a sopravvivere con circa un dollaro al giorno. La Cina poi è indifferente alla violazione dei diritti umani non ancora tutelati in Sudan e così pure al rispetto dell’ambiente.
Anche negli ultimi tempi si sono intensificati gli attacchi al confine tra Darfur e Ciad al punto che il governo ciadiano ha proclamato lo stato di emergenza in tre province e l’ACNUR ha dichiarato la sua difficoltà a garantire assistenza umanitaria agli sfollati. Cosa pensa in merito?
Il Ciad era il Sudan francese... con una varietà di gruppi etnici e clan composti da sudanesi e ciadiani ma, all’interno di uno stesso gruppo etnico ci sono coloro che combattono a favore del presidente Deby e quelli che combattono contro. Certamente la guerra in Darfur sta diventando un problema regionale e penso che gli scontri siano destinati ad aumentare in assenza di un accordo politico che riguarda anche il Ciad e il contesto regionale. Ancora una volta la soluzione non può essere che politica.

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