Nubi somale
Sulla Somalia pesa un destino di violenza, di affari illeciti e di armi, che ancora una volta, a oltre dodici anni dalla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, vede l’Italia coinvolta, e non proprio nei panni del salvatore.
Il Corno d’Africa sta entrando in una nuova guerra regionale. La crisi prende avvio da quel che resta della Somalia, dopo quindici anni di anarchia dei signori della guerra e le scissioni di Puntland e Somaliland.
In Somalia non c’è potere costituito, a parte il TFG, il Governo Federale Transitorio riconosciuto dalle Nazioni Unite ma senza alcun potere e formato per lo più dai signori della guerra sopravvissuti.
Il TFG è ormai asserragliato nella regione di Baidoa, dopo che le Corti islamiche, vittoriose a Mogadiscio, lo hanno cacciato da Johar. Il potere islamico ha riportato – insieme alla Sharia, nelle parti del Paese che controlla – anche un ordine e un livello minimo di sicurezza dimenticato da almeno dieci anni. Questo spiega l’appoggio di buona parte della popolazione, ma anche di molti dei rifugiati nel vicino Kenya, fuggiti proprio per i soprusi e le violenze dei signori della guerra, che il governo con sede a Baidoa non ha mai frenato.
L’impossibilità di trovare, se non un accordo, un equilibrio tra Governo federale transitorio e Corti islamiche, vittoriose a Mogadiscio e in gran parte del Paese, sta aprendo le porte al confronto diretto tra Etiopia ed Eritrea, per nulla interessate alle sorti delle forze in lotta, ma entrambe con l’obiettivo di diventare potenze regionali. Due Paesi, i cui popoli riescono appena a sopravvivere, che spendono milioni di euro in armi.
La Somalia è sottoposta a embargo sulla fornitura di armi a tutte le fazioni in lotta, stabilito da una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite fin dal 1992.
Un Gruppo di monitoraggio vigila da diversi anni sul suo rispetto, ma sarebbe meglio dire che registra semplicemente le continue violazioni. Ogni sei mesi gli ispettori denunciano centinaia di violazioni, che coinvolgono i governi dell’area, Eritrea ed Etiopia, ma anche Gibuti, Arabia Saudita e Yemen, fino a Libia ed Egitto. Del tutto assenti invece dalle denunce pubbliche del Gruppo gli Stati Uniti, che pure sono stati molto attivi nell’appoggio, almeno politico, ai signori della guerra coalizzati nella Alleanza contro il Terrorismo, sgominati e costretti a lasciare il Paese dai miliziani islamici lo scorso giugno.
Rapporto ONU
La situazione è molto grave. Gli ispettori ONU denunciano che il numero di armi è aumentato in modo esponenziale. Il rapporto ONU pubblicato lo scorso maggio accusa direttamente anche l’Italia e parla di due invii di materiale militare proveniente dall’Italia e destinati ai miliziani del TFG. Secondo quanto raccolto dal team di ispettori coordinato dal belga Bruno Schiemsky, almeno diciotto camion militari provenienti dall’Italia sono arrivati nell’ottobre 2005 al porto di El Ma’an, vicino a Mogadiscio, e poi si sono diretti a Johar, dove erano usati per trasportare truppe e su alcuni dei camion erano state montate armi antiaereo. Secondo le fonti locali, i camion sarebbero stati sbarcati insieme a molte casse sorvegliate strettamente da uomini armati.
Ci sono diverse foto dello sbarco, e camion simili sono stati anche fotografati a Johar, usati evidentemente a scopo bellico dai miliziani fedeli al TFG.
Alcune notizie erano filtrate già un anno fa, tanto da spingere il portavoce dell’allora ministro degli Esteri Fini, Pasquale Terracciano, a diffondere una nota di smentita su presunte forniture militari italiane alle forze in guerra.
Il rapporto ONU parla anche di alcuni voli organizzati dall’Italia e atterrati all’aeroporto di Johar, dove hanno scaricato materiale proveniente dal ministero della Difesa, in parte finito anch’esso ai militari del presidente Abdullah Yusuf. Si sarebbe trattato effettivamente di tende e generatori. Ma in base alle norme sull’embargo, ogni tipo di fornitura, anche di suppellettili o materiale logistico determina una violazione, in quanto rappresenta una fornitura alle forze in lotta.
Schiemsky ha inviato una dettagliata richiesta ufficiale di chiarimenti al governo italiano, che ha risposto il 6 marzo scorso, attraverso la rappresentanza diplomatica presso l’ONU di New York. Nella missiva l’Italia si dichiara estranea alla spedizione dei camion, che potrebbero essere stati inviati da un non ben identificato privato, mentre afferma che gli invii per aereo, sei in tutto, facevano parte di aiuti della cooperazione italiana.
Inviati speciali
Secondo l’ispettore dell’ONU, la replica del governo italiano ha aperto interrogativi più che dare risposte. Le autorità italiane non hanno fornito il nome della persona che sarebbe responsabile della spedizione, né ha fatto sapere se questi avesse comprato i camion dall’esercito italiano. L’Italia non ha consegnato alcuna documentazione sulla dismissione di materiale militare, né sull’esportazione di questi camion, o sulla linea marittima che li ha trasportati fino in Somalia. Il governo italiano si dichiara estraneo, mentre afferma che le spedizioni per aereo, sei in tutto, facevano parte di “aiuti della cooperazione italiana”. Una risposta scarna.
L’Italia ha un inviato speciale per la Somalia, che ha la sua sede sempre a Nairobi. Mario Raffaelli, una lunga esperienza come sottosegretario agli Esteri tra il 1984 e il 1992, conosce bene l’Africa, dove ha mediato positivamente la fine della guerra in Mozambico. Raffaelli si limita a confermare la risposta ufficiale. Qualche informazione in più ce la fornisce Massimo Alberizzi, inviato in Africa del Corriere della sera, che ha lavorato per verificare sul posto le denunce degli ispettori ONU. I camion, rilevati da un uomo d’affari, sono stati spediti a Dubai, negli Emirati Arabi, uno dei porti più utilizzati per le triangolazioni di materiale sospetto.
Secondo gli ispettori ONU, gli automezzi sono sbarcati a el Ma’an dalla nave mercantile Mariam Queen, nota localmente come Abu Maruyama. Da una rapida ricerca su internet e presso le capitanerie dei porti italiani, verifichiamo che la Mariam Queen in Italia non è arrivata mai.Varata nel 1974, è un cargo di piccola stazza, una carretta del mare addetta ai trasporti su e giù tra corno d’Africa e penisola araba, come dimostra una traccia dei suoi passaggi nel porto saudita di Damman, uno dei tanti scali usati per le triangolazioni di merci con l’Europa. Il maggior punto di scambio nell’area è Dubai, dove le merci provenienti da Paesi come la Somalia, considerati a rischio per gli standard sanitari dell’Unione europea, vengono “naturalizzate” e rispedite verso gli approdi del vecchio continente con un nuovo passaporto.
E qui arrivano tante forniture d’armamenti, la cui meta finale, non dichiarabile, è qualche terra di conflitto in giro per il mondo, dall’Iraq alle sponde africane. Per quanto riguarda, invece, le spedizioni curate dalla Cooperazione, parte delle forniture sono effettivamente andate ai miliziani di Baidoa, ma, nel caso di alcuni generatori, sono finiti addirittura sul mercato. Fatti che mettono in discussione la pratica di invio degli aiuti direttamente alle autorità somale, senza un controllo sull’utilizzo finale delle forniture.
Responsabilità italiane
A conferma di questi dubbi, Alberizzi racconta anche un episodio riguardante una spedizione di camion inviati in Eritrea sempre come aiuti e subito targati come mezzi dell’esercito. Il nuovo rapporto degli ispettori ONU, presentato a metà novembre al Consiglio di Sicurezza, certifica l’aggravarsi della situazione. In Somalia, insieme a un fiume di armamenti, entrano gli eserciti.
Ottomila soldati etiopi, dice il nuovo rapporto, e almeno 2500 uomini mandati dall’Eritrea, che spedisce anche aerei, smontati e ufficialmente trasformati in pezzi di ricambio. Aerei che, sempre secondo le informazioni raccolte da Alberizzi, sono stati forniti da Victor Bout, forse il maggior trafficante d’armi degli ultimi anni, le cui tracce si trovano in ogni posto d’Africa sconvolto da guerre di ogni dimensione.
Anche qui emergono responsabilità italiane: l’Eritrea, che ha fornito alle corti islamiche aerei da guerra smontati e spediti ufficialmente come pezzi di ricambio, nel 2005 ha acquistato dall’italiana Aermacchi componenti per i caccia MB 339, come registra la relazione annuale sul commercio di armamenti presentata dal governo Berlusconi a giugno, poco prima di lasciare il posto all’esecutivo Prodi.
La vendita, per un valore di 1.138.000 euro, ha avuto regolarmente l’autorizzazione all’esportazione, secondo quanto stabilito dalla legge 185 del 1990 sul commercio internazionale di armi; un’autorizzazione che, però, deroga alla regolamentazione sulle forniture militari verso paesi destinatari di aiuti della cooperazione Italiana. Inoltre, l’Eritrea è sotto accusa da tempo per violazioni di diritti umani e delle libertà civili e politiche. Ma a tutt’oggi, nonostante questa grave anomalia sia stata rilevata sia dal rapporto stilato da Giorgio Beretta per la rete “Control Arms” e poi rilanciata dalla senatrice Silvana Pisa davanti alla Commissione Difesa del Senato, non sembra che il governo italiano abbia ritenuto necessario verificare la situazione.