DIRITTI UMANI

Non vendicate mio padre

Da quando hanno ucciso mio padre mi batto per dire no alla pena capitale perché la rabbia non serve, anzi, aumenta il dolore.
Cristina Mattiello

Renny Cushing Jr ha perso il padre per un omicidio ed è direttore dell’Associazione di familiari delle vittime di omicidi per i diritti umani. Ha raccontato la sua esperienza a “Mosaico di pace” durante un suo viaggio in Italia con la Comunità di S. Egidio.

Diciotto anni fa qualcuno ha bussato alla porta della mia casa. Mia madre ha visto mio padre che apriva. E subito due colpi di fucile gli hanno frantumato il torace. Perciò, se si parla di quello che succede a chi resta dopo che qualcuno è stato ucciso, per me non è un esercizio intellettuale: è parte della mia vita. In quei giorni, non ho pensato molto all’uccisore. Pensavo soprattutto a cosa fare con quella sedia vuota al tavolo di cucina. Mi preoccupavo del vuoto nel cuore di tutti noi. La morte per omicidio è una cosa disperante, diversa da quella naturale. E poi c’è un crimine. In ospedale non ho potuto accudire il corpo di mio padre, perché doveva essere fotografato e studiato: non era più mio padre, erano delle prove. La nostra casa è diventata “la scena del crimine”. La polizia è venuta per le indagini e siamo dovuti restare col corpo di mio padre sul pavimento. Poi, lo abbiamo dovuto ripulire. Mi sono reso conto, allora, che la società a volte dimentica le vittime. Qualche settimana dopo l’uccisione venne il postino con una busta per

Il dono della vita

La pena di morte è un delitto in ogni caso, contro chiunque essa sia inflitta. Anche se si tratta di tiranni. Esprimiamo tutto il nostro sdegno per le esecuzioni compiute nelle scorse settimane in Iraq, e lo facciamo con le parole di mons. Luisi Sako, arcivescovo di Kirkuk (Iraq):
“Sono stato molto colpito, e non solo io, da una campagna che tendeva a fare di Saddam un santo, un martire. Questo è un grande errore. Saddam ha ucciso migliaia di persone. Ugualmente mi ha colpito la sua condanna a morte ed esecuzione. La vita è un dono di Dio, anche la vita d'un criminale, nessuno ha il diritto di toglierla. La maniera tragica e irrispettosa della sua esecuzione ha già peggiorato la situazione e avrà nefaste conseguenze. Il nostro Paese va sempre più verso la divisione. E gli americani usano questi scontri e divisioni per la destabilizzazione generale del Paese, per preparare la sua divisione secondo le linee etnico-religiose”.
8 gennaio 2007


mia madre: era il conto dell’ambulanza. Le mani le tremavano, era sconvolta. Fu come se fosse stata colpita per la seconda volta. Mi sono detto: ma che società è questa? Tutte le sue risorse sono rivolte alla cattura dell’assassino, più che alla considerazione delle vittime.

Come si è posto il problema dell’eventuale pena di morte per l’assassino di suo padre?
Sono cresciuto nella fede cattolica e già prima credevo in un mondo senza violenza e senza pena di morte. Un paio di giorni dopo l’omicidio un vecchio amico di famiglia mi disse: “Spero proprio che lo trovino e lo mettano a friggere sulla sedia così che tu e tua madre possiate trovare un po’ di pace”. Non sapevo cosa fare: mi rendevo conto che voleva darmi conforto, invece mi stava dicendo la cosa più orribile che potesse dirmi. Mi fece stare molto male. La cosa che più mi colpì è che lui mi conosceva, sapeva come la pensavo. Ma era sicuro che avessi cambiato idea. Mi aveva detto così perché molti pensano che le famiglie delle vittime vogliano la pena di morte. Mi resi conto allora che avevo una speciale responsabilità, quella di parlare pubblicamente contro la pena di morte, di affermare che non avevo cambiato idea, perché il mio silenzio sarebbe stato interpretato al contrario. È un’esperienza di isolamento quella di vivere in una società che dà per scontato che tu desideri la morte per l’assassino di tuo padre. A volte ti senti anche dire che allora non vuoi bene davvero a tuo padre, a tua madre, ai tuoi fratelli. Qualcuno pensa che sei un pazzo. O un santo. Io ho sempre cercato di spiegare che un’altra uccisione sicuramente non può migliorare le cose. Ma per lungo tempo mi sono sentito isolato, anche se la mia famiglia era con me. Dieci anni dopo sono stato eletto deputato nel mio Stato. In quel periodo ci furono molti omicidi e c’era un clima di isteria. Il governatore presentò, con altri, la proposta di estendere la pena di morte. Io ero in una posizione unica: ero deputato e figlio di una vittima di un omicidio. Sentii la responsabilità di parlare pubblicamente. E presentai una proposta di legge per l’abolizione della pena di morte. Si scatenò un dibattito accesissimo. Parlai molte volte in pubblico e, alla fine, ci furono più voti per la mia proposta che per l’altra. Non furono abbastanza per abolire la pena di morte, ma fu un segno importante. E la mia azione suscitò molto interesse anche all’esterno. Da allora ho avuto moltissimi contatti e ho cominciato a lavorare con il movimento abolizionista e altri familiari delle vittime.

Con quali argomenti sostiene la sua posizione?
Ci sono molti motivi per essere contrari alla pena di morte (la sua applicazione è discriminante, può colpire degli innocenti), ma io cerco di insistere su un punto: mi oppongo alla pena di morte soprattutto per quello che fa alle vittime. La morte per assassinio è una morte del tutto particolare. I familiari passano molto tempo a pensare come può ricominciare la loro vita dopo l’atto violento che l’ha sconvolta. Intanto abbiamo bisogno di conoscere la verità e di sapere che l’assassino è considerato responsabile delle sue azioni. Però, dopo che la giustizia ha appurato la verità e arrestato l’omicida, c’è ancora qualcosa di cui abbiamo bisogno: guarire, curare veramente la nostra ferita. La guarigione è un lungo processo, non è un evento determinato. Chi vuole la pena di morte non capisce questo bisogno profondo, anzi crede che l’esecuzione dell’assassino possa favorire il superamento del trauma. Ma non succede così. Un’altra uccisione non riporta in vita nessuno: serve solo a riempire un’altra bara. Non ti senti meglio col tuo dolore creando altro dolore.
Quando mio padre è stato ucciso ho visto quante persone sono state colpite dalla sua morte: non solo noi familiari, ma anche i vicini e persone che non conoscevo, l’intera comunità. E anche i familiari dell’assassino. Un giorno in tribunale, durante il processo, c’era un uomo che non conoscevo. Mi dissero che era il figlio dell’assassino. Si chiamava col nome del padre più Jr, esattamente come me. Alla fine di quella giornata ci siamo incontrati nel parcheggio. Era un’occasione molto strana: l’unico motivo che ci faceva conoscere era il fatto che suo padre aveva ucciso il mio. Mentre stavamo uno di fronte all’altro mi sembrava di avere un buco nero ai miei piedi e rischiavo di essere tirato dentro. Capii che quel buco era l’assassinio di mio padre. Lui cominciò a scusarsi. Lo fermai, gli dissi che non doveva scusarsi: non era stato lui. Dissi che tutti e due avevamo perso nostro padre quel giorno. Il mio è sotto terra, il suo in prigione. Così siamo legati per sempre da un omicidio. Ma abbiamo situazioni molto diverse. A me manca mio padre, ma posso parlare di lui, ho il ricordo della sua vita onesta e posso condurre la mia vita in modo da onorare la sua. Lui ha una storia diversa. È il figlio di un assassino. E ha un peso fortissimo da sopportare. Mi chiedo perché la società vuole che io pensi a quest’uomo come a un nemico. Con la pena di morte in realtà si vuole che la famiglia dell’assassino sperimenti la stessa esperienza della famiglia della vittima dell’omicidio. Io dovrei stare ad aspettare fuori che suo padre venga legato alla sedia e venga ucciso. Dovrei aspettare che quest’uomo si vada a riprendere il corpo del padre. Perché questo dovrebbe essere bene per me? Un altro omicidio non porta onore alla morte di mio padre e non è bene per nessuno.

Come si possono affrontare la rabbia e il desiderio di vendetta?
La cosa più difficile da fare è accettare che non si può cambiare il passato: quello che puoi, che devi fare è prendere decisioni sul futuro, in modo che l’assassino non prenda anche la tua vita. Devi fare il meglio possibile, devi

Associazione dei familiari di vittime di omicidi

La Murder Victims’ Families for Human Rights (Associazione dei familiari di vittime di omicidi) mette la problematica delle vittime al centro della campagna contro la pena di morte, non solo i familiari degli uccisi, ma anche quelli degli assassini, “vittime-ombra” della violenza istituzionale, cui viene negato anche il diritto di esprimere il proprio dolore. In collegamento con Amnesty International e altri organismi, l’associazione intraprende campagne di sensibilizzazione, ma anche iniziative di assistenza materiale e legale e un programma di riconciliazione, che prevede anche incontri diretti tra le famiglie delle vittime e dei responsabili del crimine.
Info: www.murdervictimsfamilies.org


condurre una vita onesta. Invece, la rabbia e il desiderio di vendetta rovinano anche la tua vita.

Si può arrivare al perdono?
Io non parlo mai di perdono, il perdono è una cosa grande e non tutti ci arrivano. Parlo piuttosto di “lasciar andare”. Vuol dire cambiare atteggiamento e sentimento rispetto al trauma. È un processo lento e c’è un’intera vita per farlo. Innanzi tutto bisogna fare i conti con la memoria: i ricordi del trauma tendono a sopraffare, bisogna imparare a controllarli. Poi, cominci a poterne parlare. Il trauma ha una sua sintassi. Bisogna dargli una lingua, esprimerlo con le parole ma anche con la musica, l’arte. È un processo quasi biologico, misurabile. C’è una fase di transizione. Poi, poco a poco, riesci a uscirne. In genere ci vogliono dai due ai sette anni per vedere cambiamenti significativi. Ma puoi arrivare al punto che riesci a “lasciare andare”. Ecco perché parlo anche di “guarigione” e sostengo che la pena di morte, invece di aiutare, blocca questo processo, che è lungo e complesso, ma è l’unico che può veramente dare conforto.

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