Una tela senza ragno
Questo breve contributo affronta alcuni aspetti del modo in cui la Chiesa e in particolare le Chiese meridionali hanno guardato e guardano la mafia.
I volti della mafia
Il fenomeno mafioso, in quanto espressione di violenza, sembra essere confinato a momenti straordinari della vita sociale, quando cioè accadono omicidi, atti di intimidazione, danneggiamenti e così via; non si nota, invece, che l’azione mafiosa, per sua natura, ha bisogno di vivere nelle pratiche quotidiane e di influenzare fortemente le culture individuali e collettive. La vita della comunità, del mercato, della politica e della società civile (gruppi d’interesse) risentono fortemente della sua presenza. La mafia influisce sul modo in cui le varie istituzioni (famiglia, impresa, comune ecc.), si relazionano all’interno dei loro ambiti (comunità, mercato, politica). Inoltre è bene ricordare che la cultura mafiosa pesa sul modo in cui un individuo guarda il mondo e le sue istituzioni. La mafia è produttrice di norme e di valori che danno luogo a un vero e proprio processo d’istituzionalizzazione che in molti territori diventa la forma di regolazione sociale più efficace e più importante. Tale regolazione tende a sostituirsi a tutte le altre forme anche a quelle statuali, e ciò avviene a volte nel conflitto violento, altre volte attraverso la manipolazione.
Per molti anni gli studi e anche le convinzioni di senso comune tendevano a leggere la prepotenza mafiosa come un fenomeno di arretratezza. L’arrivo della modernità avrebbe dovuto far scomparire questo grave fenomeno. L’intensificazione della modernizzazione non solo non ha prodotto un ridimensionamento dell’azione mafiosa, ma la ha sicuramente resa più pervasiva e diffusa. Il cambiamento ha offerto all’impresa criminale mafiosa nuove opportunità di sviluppo e ha aperto nuovi percorsi per il coinvolgimento nelle attività illegali e violente. Obiettivo della mafia, nelle sue varie articolazioni, è l’acquisizione di ogni tipo di potere, politico, economico e sociale.
Nel Mezzogiorno d’Italia il fenomeno mafioso si è radicato e riprodotto in alcune regioni, come la Sicilia, la Calabria e la Campania, da lungo tempo; in
Il cuore dell’azione mafiosa è in quei Paesi e in quelle realtà sociali dove essa si radica, si riproduce e si legittima. Un’immagine molto efficace di questo fenomeno è quella che ci dà Rocco Sciarrone, un giovane studioso calabrese che insegna all’Università di Torino: una tela senza ragno, cioè una rete mafiosa densa e compatta con una elevata capacità di connessione, con tanti nodi dove si intrecciano le relazioni tra mafiosi ed esponenti delle classi dirigenti e dove nessuno di questi nodi è essenziale agli altri, per cui questa rete continua a funzionare regolarmente anche quando alcuni di questi nodi vengono colpiti. Questa immagine, anche se in prima istanza sembra toglierci la speranza di una società senza mafia, è lucida perché ci permette di percepire le difficoltà che abbiamo davanti.
Non solo repressione
La tela senza ragno ci dice che la battaglia contro la criminalità mafiosa sarà ancora lunga e che non riguarda solo la lotta all’illegalità, ma la trasformazione della società: la formazione di una nuova coscienza politica, la costruzione della legalità nelle culture popolari, nei territori, nelle relazioni, nelle imprese e soprattutto nelle varie istituzioni pubbliche.
La lotta alla mafia da parte dello Stato ha avuto fasi diverse, alcune di scarsa attenzione al fenomeno, altre di forte mobilitazione. Quello che possiamo dire è che la criminalità mafiosa è fortemente cresciuta nonostante la costituzione di una commissione parlamentare antimafia permanente e l’istituzione di un dipartimento della magistratura specificamente rivolto a indagare e perseguire i crimini mafiosi. C’è da chiedersi, perché tutto ciò non è bastato per frenare questa crescita? Eppure vi è stato l’impegno e il martirio di persone eccezionali che hanno impegnato tutte le loro forze intellettuali e morali e molti sono i casi di grandi successi delle forze dell’ordine e della magistratura nella lotta contro la mafia. Evidentemente i caratteri di questo fenomeno non si possono combattere solo con la repressione e se l’azione della magistratura e delle forze di polizia sono assolutamente necessarie, non sono sufficienti a contrastare la sua riproduzione e la sua espansione. I motivi dell’inefficacia dell’azione repressiva sono essenzialmente due: l’azione di manipolazione e le difficoltà a proporre concretamente percorsi di crescita civile e d’integrazione sociale soprattutto nelle zone più povere. Nel primo caso notiamo una situazione molto particolare: c’è un pezzo delle istituzioni che combatte l’azione mafiosa e un
Don Tonino Bello
Questa situazione così variegata ha creato una separazione tra l’azione repressiva e l’azione culturale e sociale di contrasto e di resistenza al potere mafioso. L’altro aspetto importantissimo, ma di cui si parla poco, è la capacità di offrire sui territori percorsi legali d’integrazione sociale. Questa debolezza è particolarmente grave sia in alcuni quartieri popolari delle aree urbane, dove la disuguaglianza si confonde con il degrado, sia in molti paesi dell’interno, dove i commerci illegali costituiscono l’unica vera forma di mercato presente. La mancanza di altre opportunità orienta soprattutto i giovani verso le attività criminali. Questo processo permette il radicamento mafioso sul territorio, la sua riproduzione e spesso anche la sua crescita.
Chiesa e lotta alla mafia
La religione ha avuto e ha, nel Mezzogiorno, una funzione essenziale nella formazione delle coscienze degli individui e quindi anche nella lotta all’espansione della criminalità mafiosa. Bisogna dire, però, che essa ha subito anche numerose manipolazioni e in tal senso ha legittimato e facilitato la diffusione della mafia. Le varie associazioni o famiglie mafiose hanno, quasi sempre, utilizzato nei loro codici d’onore il linguaggio e i simboli religiosi. La religiosità popolare e in particolare le sue feste sono state utilizzate come momento per trovare legittimazione sociale, ma spesso anche per sancire vincoli, formalizzare spartizioni, stabilire gerarchie, decretare ed eseguire sentenze mafiose. Gli stessi riti religiosi, in alcune situazioni, sono stati oggetto di manipolazione. Attraverso di essi è avvenuto lo sfoggio del potere mafioso. La reazione della Chiesa a tutto ciò ha avuto fasi diverse. Se leggiamo le descrizioni delle Inchieste Parlamentari (quella sulle condizioni dei contadini nel Mezzogiorno 1905-1911) si nota che vi sono state per lo più forme di compenetrazione, in pochi casi si sono registrati conflitti e comunque, nel secolo scorso, all’inizio del Novecento, il problema era delegato esclusivamente alle Chiese locali. I grandi cambiamenti, in seguito, avvengono per due motivi: la nascita di vere e proprie organizzazioni criminali e la nuova sensibilità religiosa nata dal Concilio. Nel periodo postconciliare sono molte le denunce fatte dall’episcopato italiano e alcune anche direttamente dal Papa (Paolo VI ).
Può essere interessante citare come esempio il documento Educare alla
Don Italo Calabrò
“Ancora più preoccupante è la presenza di una forte criminalità organizzata, fornita di ingenti mezzi finanziari e di collusive protezioni, che spadroneggia in varie zone del Paese, impone la sua legge e il suo potere, attenta alle libertà fondamentali dei cittadini, condiziona l’economia del territorio e le libere iniziative dei singoli, fino a proporsi, talvolta, come stato di fatto alternativo a quello di diritto”. L’analisi del fenomeno è lucida, ma la cosa più importante di questo documento è la percezione di una debolezza sociale, istituzionale ed etica: “Le risposte istituzionali sembrano spesso troppo deboli e confuse, talvolta meramente declamatorie, con il rischio di rendere la coscienza civile sempre più opaca... Non vi è solo paura, ma spesso anche omertà; non si dà solo disimpegno, ma anche collusione... Non sempre si è vittima del sopruso del potente o del gruppo criminale, ma spesso si cercano più il favore che il diritto, più il comparaggio politico o criminale che il rispetto della legge e della propria dignità”.
Questo è sicuramente il documento più forte dell’episcopato italiano. Nel periodo successivo vi sono diversi interventi della Caritas italiana e molti vescovi di città importanti del Sud denunciano la situazione di gravità.
Il lavoro delle Chiese locali
Rilevanti sono inoltre diverse prese di posizione delle Conferenze Episcopali Regionali (siciliana, calabrese, campana e pugliese). Nonostante questo impegno importante, sono molti i problemi che rimangono non affrontati. Quello centrale è relativo al modo nel quale la Chiesa nelle sue articolazioni sul territorio concretamente si pone verso il fenomeno mafioso. Quali iniziative è necessario prendere, come aiutare i parroci ad affrontare la presenza di organizzazioni criminali, che cosa proporre ai giovani che cominciano a percorrere sentieri di collusione mafiosa?
Sarebbe molto importante analizzare i comportamenti delle varie Chiese locali riguardo al fenomeno mafioso e sicuramente troveremmo esperienze esemplificative. Tra le tante esperienze importanti vorrei richiamare brevemente due casi di uomini di Chiesa che si sono posti questi problemi: don Italo Calabrò e don Tonino Bello. Il primo, straordinario prete reggino, affronta il problema della vita cristiana in una terra difficile. Parroco di una parrocchia a forte presenza mafiosa scrive:
“Riteniamo nostro primo dovere rinnovare la condanna, chiara ed esplicita, a ogni forma di mafia, cancro parassitario, esistenziale, che rode la nostra compagine sociale; succhia con i taglieggi il frutto di onesto lavoro; dissolve i gangli della vita civile; con sequestri che non risparmiano più neppure le donne e i bambini e con uccisioni cinicamente consumate, irride e calpesta i valori più alti e gli affetti più sacri della vita. [...] Siamo qui riuniti per isolare i mafiosi, mandanti, esecutori, complici, chiunque essi siano e dovunque si annidino. Siamo qui per stabilire un costume di nonviolenta, ma ferma opposizione alla mafia. Occorre reimpostare una cultura della vita”.
Don Italo ci mostra non tanto come si fa la lotta alla mafia, ma come si può essere cristiani in queste terre del Sud. Dello stesso tenore è l’apporto di don Tonino, vescovo di Molfetta e grande costruttore di speranza. Egli vede nel volontariato un segno importante di cambiamento, le categorie della solidarietà e della pace sono le uniche capacità, a suo avviso, di superare i problemi del Sud. La mafia per lui è come l’esilio e bisogna presto uscire da questa condizione, perché sarebbe gravissimo abituarsi a vivere in una tale situazione.
In questi ultimi anni la Chiesa è stata presente sui territori di mafia con il sacrificio di parroci, l’impegno di religiosi e il lavoro di molti gruppi di volontariato, e non si può dimenticare la grandissima funzione di Libera, associazione di associazioni laiche e cattoliche, fortemente impegnata nella denuncia dei fatti di mafia e nei percorsi di educazione alla legalità. Rimangono comunque presenti tante ambiguità e si ha la percezione di una nuova delega su questi temi dell’Episcopato italiano alle Chiese locali.
Esemplificativo a questo proposito è la dimenticanza di questo gravissimo problema nel Convegno della Chiesa Italiana tenuto a Verona.
Non potremmo chiudere questa breve e disordinata riflessione senza far riferimento a un’esperienza molto importante che è in atto nella diocesi di Locri che si pone all’attenzione di tutte le Chiese di Calabria e che riprende molti degli elementi già presenti nella sensibilità di don Italo e di don Tonino Bello. Si tratta di una vera e propria forma di mobilitazione della vita cristiana orientata alla libertà, al ripristino della dignità delle persone, alla costruzione di percorsi d’integrazione, alla pacificazione, alla redenzione, alla legalità.
La cosa straordinaria è che tutto questo si regge sull’annuncio del Vangelo. Paradossalmente potremmo dire che combattere la mafia è una occasione straordinaria offerta alle Chiese e a noi tutti per avviare percorsi di conversione alla vita cristiana.