IRAQ

Sotto il cielo di Baghdad

Gli effetti “collaterali” di una guerra interminabile, che ha portato in Iraq fondamentalismo e terrorismo. Che prima non c’erano.
Renato Sacco

A Baghdad la situazione peggiora di giorno in giorno. Io ci vivo da quasi un anno, e in questo tempo le cose stanno andando davvero sempre peggio.
Chi parla è mons. Francis Assisi Chullikatt, nunzio apostolico in Iraq e Giordania. L’ho incontrato il 28 agosto scorso. Sono stato con lui alcuni giorni, per una coincidenza casuale, presso l’amico vescovo di Kirkuk, mons. Louis Sako. Per qualche giorno abbiamo condiviso la vita, la preghiera, le fatiche, le speranze della comunità cristiana e poi siamo andati al nord, nel Kurdistan iracheno, per incontrare altre comunità,

Vi dico ancora grazie per questo legame con voi di Pax Cristi, con alcuni amici in particolare, un legame quasi mistico e misterioso nello stesso tempo. È un calore umano e spirituale che sentiamo molto forte. Ma rinnovo anche il mio invito alla Chiesa ufficiale: non lasciateci soli.
Luis Sako, arcivescovo di Kirkuk
la gente, i sacerdoti, i vescovi. Non un viaggio giornalistico vissuto per portare a casa la notizia o magari lo scoop, ma un viaggio di incontro umano. Certo fa pensare che da tanto tempo in Iraq, in particolare a Baghdad, non ci siano giornalisti stranieri. Dal 17 settembre scorso il nostro Tg1 ha inviato una troupe. Io a Kirkuk non ho girato per le strade con telecamera o macchina fotografica. È pericoloso. E lo è molto di più a Baghdad. E non basta certo avere un permesso scritto in tasca. è lecito pensare che quindi i giornalisti che ci fanno vedere i soldati USA per le strade, siano embedded cioè arruolati. Giornalisti o portavoce? D’altronde l’inviata del Tg1 nel 2003 è entrata a Baghdad al seguito dei carri ar¬mati americani. Non c’è bisogno di ulteriori commenti per una riflessione sull’informazione dalle zone di guerra.
Quale servizio alla verità? E a proposito di verità, il 27 settembre, riprende processo per l’uccisione di Nicola Calipari. Un processo che rischia di essere un po’ dimenticato. Mah.. I misteri dell’informazione.

Vivere sotto le bombe

Ma torniamo all’Iraq della gente… normale. Al nord si sono rifugiati anche migliaia e migliaia di profughi, in fuga soprattutto da Baghdad e Mosul, due città ormai invivibili per la totale insicurezza. In quei giorni a Baghdad, ci diceva il nunzio, c’era il coprifuoco 24 ore su 24. A Kirkuk abbiamo anche incontrato le autorità politiche, i responsabili religiosi, gli imam sunnita e sciita, (insieme!) e anche questo, ci diceva il vescovo Sako, è molto importante. Il mio rientro è stato anticipato di un giorno, perchè la compagnia aerea austriaca cancellava tutti i voli per qualche settimana: per motivi di sicurezza, così ci han detto. Anche questo è l’Iraq. Secondo alcune ONG che ancora lavorano in Iraq, un terzo della popolazione ha bisogno di aiuti d’emergenza a causa della crisi umanitaria provocata dalla guerra e dalla violenza in atto nel Paese. A circa 8 milioni di persone servono urgentemente acqua, servizi fognari, cibo e alloggio, mentre sono oltre 2 milioni, in maggioranza donne e bambini, quelli che sono stati costretti ad abbandonare le loro case, e ora vivono da sfollati all’interno dell’Iraq, senza un reddito su cui poter contare. Duemila iracheni stanno fuggendo ogni giorno dalle loro case: è il più grande esodo di massa che si ricordi in Medio Oriente. Quattro milioni di persone, un iracheno su sette, sono scappate via, perché, se non lo avessero fatto, sarebbero state uccise. E questo vale per tutti gli iracheni, in particolare per i cristiani. “C’è un quartiere a Baghdad, Dhora, – continua il nunzio – in c’era anche il seminario; veniva chiamato il piccolo Vaticano per la grande presenza dei cristiani. Ora il seminario è stato chiuso e aperto nel nord, a Erbil, e più di 2000 famiglie sono state costrette a fuggire per non essere uccise o subire continuamente minacce e rapimenti”.
Mons. Sako aggiunge: “C’è molto da fare per tenere viva la speranza! Io chiedo a voi, alla Chiesa, alla S. Sede di aiutiarci. Non lasciateci soli. Ci sentiamo isolati e abbandonati. C’è bisogno di segni e gesti concreti per non sentirsi abbandonati… Non sono soltanto le cose materiali, gli aiuti di cui abbiamo bisogno, che certo sono importanti. Ancora più importanti sono i rapporti umani. Una visita, come la tua, è molto importante per mostrare solidarietà, amicizia. Per incoraggiarci. Questa è la priorità, prima ancora dei progetti, perchè ci aiuta a superare la sensazione di sentirci isolati. Il futuro è molto oscuro.
Noi, i cristiani soprattutto, siamo chiamati a vivere la convivialità non solo come una cosa teorica, una speculazione filosofica, ma nella concretezza, nella realtà dove si è chiamati a vivere tutto questo. Si dice sempre che la Chiesa è Una, Santa, Cattolica, Apostolica… ma questo va tradotto in gesti concreti. In tutto questo tempo non abbiamo visto praticamente nessuno, tranne qualche amico di Pax Cristi dall’Italia. E qualche visita dall’Austria e Germania. Ma nessuna delegazione ufficiale con qualche vescovo, a nome della Conferenza episcopale italiana o francese o di altri Paesi. Questo sarebbe per noi, per tutta la gente, e non

Nella trappola irachena
di Jean Benjamin Sleman, arcivescovo latino da Baghdad
Presentazione a cura di Renato Sacco, Edizioni Paoline 2007

Se la guerra voleva essere preventiva per evitare l’uso di armi di distruzioni di massa da parte di Saddam si è visto che era una bugia, in quanto le prove erano false. Se la guerra voleva combattere terrorismo e fondamentalismo i risultati sono sotto gli occhi di tutti: oggi in Iraq questi due fattori diabolici trionfano. Mi diceva una catechista di Mosul: ma l’unico modo per aiutarci è quello di vendere armi al nostro dittatore e di bombardare noi con le armi all’uranio? A dire il vero ci sono state voci critiche contro la guerra, non ultima quella di Giovanni Paolo II. Quante volte è intervenuto a denunciare la follia della guerra ‘avventura senza ritorno”! Forse ha ragione chi dice che Woitila è stato un Papa molto applaudito e poco ascoltato. Oggi le sue parole suonano ancora più amare. Ma non risuonano più molto neanche nelle Chiese... la cultura della guerra rischia di permeare anche le comunità cristiane. La religione rischia di essere sempre più ‘usata’, anche quella cristiana. Con l’inspiegabile risultato di chiudere gli occhi di fronte alla realtà, alla tragedia di altri fratelli, addirittura anch’essi cristiani come noi, ma che non si sentono più parte viva di questo corpo mistico della Chiesa. Una Chiesa, anche in Italia, che rischia di ripiegarsi su stessa, di curare molto le liturgie (o le esteriorità, magari anche con abiti liturgici firmati da grandi stilisti) ma che fatica ad essere Chiesa coraggiosa nella denuncia della guerra e di ogni forma di violenza. Che fatica ad annunciare oggi la strada evangelica della nonviolenza attiva e che si sofferma a benedire nuovi diabolici strumenti di guerra. Questo libro può essere un aiuto a riscoprire davvero il senso della ‘cattolicità’, non intesa come crociata o difesa anche armata e violenta contro ogni diversità religiosa o culturale, ma come autentica universalità. E chissà se anche i tanti amici iracheni che continuamente sento al telefono si sentiranno un po’ meno vittime anche dell’indifferenza.
R.S.
solo per i cristiani, un grande segno di speranza e di incoraggiamento. D’altra parte – continua mons. Sako – nella vocazione cristiana c’è qualcosa di avventura, di rischio. Gesù non ci ha detto che è tutto rose e fiori. E quindi si sa che ci sono difficoltà. Ma è nella crisi che abbiamo di sentire solidarietà e amicizia. Quando tutto va bene… possiamo noi venire da voi... ma ora… Certo c’è il problema della sicurezza... ma al Nord la situazione è più tranquilla, ci si può muovere, incontrare le persone, non bisogna avere paura”.
Certo ogni volta che si parla di Iraq ti senti dire, giustamente: “Ma è pericoloso.. e poi cosa vai a fare?”. È quello che ci sentivamo dire ogni volta che, con altri amici di Pax Christi, si andava in quella terra da troppi anni segnata da guerre, violenze e sofferenze. E alcuni me lo hanno chiesto anche per questo viaggio, il settimo, nella terra dei due fiumi, dell’antica Babilonia, dell’antica Ninive, di Ur dei Caldei patria di Abramo.
Cosa ci vai a fare?” Ripensando a quei giorni direi che ‘sono andato in Iraq a fare… niente’. Semplicemente per dare valore alla gratuità dell’amicizia, dell’incontro. Per incontrare e ritrovare amici. In particolare il mio ‘omonimo’ mons. Sako vescovo di Kirkuk, amico sincero da tanti anni. Per dire a quella gente, anche a nome di tanti che sono rimasti a casa, che non sono soli. È stata un’esperienza forte, vissuta con lo spirito di chi si sente a casa di amici... e quindi anche un po’ a casa sua. Giorni vissuti non tanto nelle discussioni socio-politiche (comunque importanti e doverose!) sul ritiro delle truppe, su Saddam… sulla vita che è più cara e la benzina costa quasi come da noi... sulla follia della guerra che sembra proprio non insegnare niente, anzi… con nuove prospettive di guerra in Iran. Giorni per condividere la quotidianità di chi si trova dentro quella situazione e che dopo una guerra, poi un’altra, poi l’embargo, poi un’altra guerra ancora… si trova a combattere per la sopravvivenza fisica e morale. Tutto questo vissuto con una grande dignità anche da parte dei più giovani, dalla ragazza bella, alta, scarpe coi tacchi e jeans che però non nasconde la sua mano… artificiale, quella vera chissà? Drammi vissuti serenamente dalla giovane coppia che all’aeroporto viene respinta dalla polizia perchè il passaporto, dicono, non è a posto. Non una parola, non una lacrima. Con un altro prete iracheno cerchiamo di parlare col poliziotto... alla fine passa. Scoppia la gioia! Anche questa è gente dell’Iraq... forse la più fortunata. E gli altri?
Ho potuto constatare l’impegno per il dialogo interreligioso che mons. Sako cura da sempre con attenzione. Oltre la visita al sindaco, vista la presenza del nunzio, anche ai due Imam, sunnita e sciita. Quando ci si trova intorno a una tazza di tè, ci si guarda in faccia... si parla un po’, si condivide anche la fatica del caldo (44 gradi!), del trovare medicine per cure un po’ particolari... allora ci si conosce di più. È più facile anche il dialogo sulle grandi cose.
In Iraq sono quindi andato a fare niente e a cercare di impedire che qui da noi vinca la paura, l’indifferenza e l’abitudine alla guerra e alla violenza.

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