La speranza secondo Ratzinger
Chi passa in questi giorni (20 dicembre, ndr) per piazza San Pietro a Roma nota gli operai al lavoro, a ridosso dell’obelisco, per la costruzione del presepio. I tubi impiegati sono centinaia e si stenta a credere che da quel labirinto di ferro uscirà un’opera tanto bella e commovente, capace di suscitare stupore e di intenerire una volta ancora anche i cuori più duri. Guardare la costruzione del presepio è come assistere alla riproduzione plastica del lavoro che la Chiesa, in quanto popolo di Dio, svolge in tante forme ogni giorno: costruire pazientemente una speranza fondata nel cielo, anche se il destinatario di tanto impegno, l’uomo, è spesso distratto, disilluso o, peggio ancora, refrattario a ogni idea di speranza che non abbia radici nella terra, cioè in se stesso e in ciò che sa fare attraverso la scienza e la tecnica.
Benedetto XVI con la sua seconda enciclica continua, verrebbe da dire testardamente, l’opera da “operaio nella vigna del Signore” e come ogni buon muratore lavora prima di tutto sulle fondamenta: così dopo l’amore ecco la speranza. Ma se parlare d’amore poteva sembrare difficile, come il Papa stesso premetteva, fare un discorso sulla speranza è forse ancora più complicato.
Ma Benedetto non è tipo da arrendersi facilmente e sfodera tutto il suo armamentario teologico per ribadire che la sola vera speranza è in Gesù Cristo perché solo lui ha per ciascuno di noi un progetto che riguarda anche la vita futura, e più importante, dopo la morte.
Proprio qui, sostiene il Papa, sta il grande errore commesso nella storia da tutti quelli che hanno puntato unicamente sull’uomo e sulle sue capacità.
È la fede in Dio, attraverso Gesù, che redime l’uomo. Non la scienza, non il progresso, non l’economia. Marxismo e illuminismo hanno fallito perché hanno dimenticato la vera natura dell’uomo, che si rivela nella sua libertà.
L’uomo, ogni uomo, ha bisogno di Dio.La questione riguarda anche la giustizia. Un mondo che si fa la giustizia da solo, che la crea a sua immagine e somiglianza, è un mondo senza speranza.
La sola vera giustizia è quella di Dio. E anche se parlare di Dio giudice può sembrare terribilmente out, il Papa lo fa. Nella sua giustizia Dio è certamente anche grazia, ma stiamo attenti, perché la grazia non esclude affatto la giustizia.
Il Papa indica quattro luoghi di apprendimento della speranza. Il primo è certamente la preghiera (“Se non mi ascolta più nessuno, Dio mi ascolta ancora”, come ha sperimentato il cardinale vietnamita Van Thuan, per tredici anni in carcere e che in mezzo a tanta disperazione trovò forza unicamente nella speranza cristiana), ma c’è anche l’agire (“La speranza in senso cristiano è sempre anche speranza per gli altri. Ed è speranza attiva, nella quale lottiamo” perché “il mondo diventi un po’ più luminoso e umano”), c’è la sofferenza (perché “non è la fuga davanti al dolore che guarisce l’uomo, ma la capacità di accettare la tribolazione e in essa di maturare”) e c’è appunto il giudizio di Dio, che revoca le sofferenze passate, ristabilisce il diritto e ripara ogni male.
La critica del Papa alla modernità è, come sempre, netta, ma nell’enciclica c’è anche la richiesta che la Chiesa stessa faccia autocritica. Come ha notato alla Radio Vaticana padre Federico Lombardi, il Papa chiede che nel dialogo con la modernità i cristiani imparino nuovamente in che cosa consiste la loro speranza, che cosa hanno da offrire al mondo e che cosa invece non possono offrire.
Come spesso succede davanti ai testi di papa Ratzinger si resta al tempo stessi ammirati per la sua lucidità e per l’agilità espositiva ma anche dubbiosi: c’è come un fossato troppo largo fra il mondo ordinato di Benedetto XVI, ispirato a una visione religiosa e trascendentale della vita in cui tutto trova posto e significato con esattezza, e il mondo di tutti i giorni, non solo secolarizzato ma “liquido”, confuso e grigio, dove sembra non esserci più posto per le risposte nette e neppure per le domande, perché non importano.
Il Papa, scrivendo questa enciclica, ha dimostrato di sperare nella possibilità del confronto. Ma forse oggi è proprio questa la speranza più difficile da coltivare.