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Padre cerca figlio

Un romanzo di Cormac McCarthy: un padre e un figlio alla ricerca dell’essenziale, della relazione perduta, di nuovi percorsi.
Andrea Bigalli

Il mondo si è dissolto in cenere e ciò che ne resta è popolato di orrore: non ci viene narrato il come e il perché dell’evento che lo ha ridotto a frammenti grigi. Si può intuire una ecatombe nucleare, ma quel che definisce il contesto è l’azzeramento di quanto conosciuto fino ad allora. La realtà si riduce a fatica e stenti: neanche i sogni restituiscono l’immagine di quanto è stato, l’umano non sa esprimere altro linguaggio che crudeltà e follia, tutto annega nella mancanza di ogni tipo di prospettiva.

Un uomo e un bambino, un padre e un figlio (non sapremo i loro nomi), vanno verso sud: non sanno cosa cercare al di là della sopravvivenza, sfuggono al freddo, cercano errando gli elementi primari della vita. Intorno a loro segni di un male ormai senza controllo: ma nel rapporto tra di loro, l’amore che li lega, brilla l’unica scintilla di vita, una goccia di bellezza che forse niente può travolgere.

“Noi portiamo il fuoco”, ripete il padre al figlio: nell’ostinazione di un’etica nonostante non sembri più possibile possederne alcuna, di nessun tipo, sta la bellezza della volontà di prendersi cura e di continuare a leggere il mondo senza cedere totalmente alla necessarietà della violenza.

Come solo un bambino può riuscire a fare. Come sta nella logica della paternità.

 L’altramerica

Cormac McCarthy è un romanziere statunitense di razza. Si sa pochissimo di lui, auto recluso a El Paso dove vive da tempo, al di fuori di ogni mondanità culturale, in un isolamento che fa pensare a quello di un altro grande, Salinger. Benché non giovane (è del 1933) solo di recente è giunto al pieno successo di pubblico, dopo che da tempo gode di quello della critica. Già vincitore del National Book Award con “Cavalli selvaggi”, è stato consacrato con il Premio Pulitzer 2007 conquistato proprio con questo suo ultimo romanzo, “La strada”, e si attende sugli schermi la riduzione cinematografica, a opera dei fratelli Joel e Ethan Coen, di “Non è un paese per vecchi”, il suo romanzo precedente. McCarthy scrive di un’America che sembra aver smarrito ogni senso etico, nonostante una propria tradizione di dignità e di coraggio; non a caso è autore di una trilogia western di grande respiro.

I suoi personaggi esprimono lo sconcerto di fronte alla spietatezza del mondo: la miseria degli sconfitti diventa ancora più nitida letta nella impotenza dei giusti. Le tradizioni che hanno consentito la nascita di una grande nazione sono segnate di sangue, ma potevano esprimere il proprio riscatto, nella coscienza del male, nell’assunzione di responsabilità.

Ciò non è avvenuto: l’unico destino possibile diviene il nulla, dell’etica come dei significati. L’assurdo impera: e la sua perversione più grande risiede nel presentarsi con regole assolutamente arbitrarie, nella casualità della violenza. Lo sceriffo protagonista di “Non è un paese per vecchi” incappa in un killer psicopatico che sembra riassumere in sé tutto il potere devastante della disgregazione del senso: nell’affrontare una marea di sangue lo sostiene l’amore per la moglie, trova il coraggio di confrontarsi con il proprio passato, ma niente può per contenere un male che si pone come unica regola del mondo, al cospetto di un Dio invocato ma silente.

Poesia oltre la poesia

Resistere alle circostanze avverse pare essere inutile, eppure resta l’unica possibilità di dignità che rimane. Come accade per il padre de “La strada”, che tenta di evitare al figlio la resa di fronte alla logica della morte. Lo fa con una disperata volontà di vita: bisogna andare avanti anche quando non sembra esserci più nessuna strada possibile, soprattutto nel cuore umano. E non mancano i riferimenti biblici; un Padre, un Figlio e – a un certo punto della narrazione – una barca che si chiama “Pajero de la esperanca”, Uccello della speranza. “Sapeva solo che il bambino era la sua garanzia. Disse: se non è lui il Verbo di Dio allora Dio non ha mai parlato”: come già nei suoi altri libri, McCarthy si muove senza la paura di alti riferimenti.

La sfida sostenuta dall’autore è enorme. Pochi personaggi, la monotonia dei paesaggi, vicende già narrate; la letteratura sul mondo dopo la catastrofe è ricchissima, anche di opere estremamente significative. Ma il livello emotivo, una prosa eccezionale, la capacità di dire quello a cui apparteniamo come un tempo devastato, ci fanno parlare di una sfida vinta. Se la critica statunitense ha paragonato “Meridiano di sangue” al “Moby Dick” di Melville, “La strada” è “Il vecchio e il mare” di McCarthy. L’essenzialità dello stile, scarno, prosciugato di vocaboli, eppure capace di esprimere passaggi di intensità incredibile, l’esiguità dei riferimenti esterni ai personaggi, ci dicono di un grande romanzo giocato sull’abilità assoluta nell’affabulare.

Se “Non è un paese…” è ricco di riferimenti storici (il Vietnam, la trasformazione sociale dopo l’avvento del consumo massiccio di droghe, uno sguardo implicito sulle guerre che verranno dopo…), questo romanzo lavora molto sui panorami interiori: la meticolosità delle descrizioni e delle azioni si traduce, quasi per squarci, nel mostrarci il cuore dei due personaggi.

Il padre, soprattutto, è narrato secondo un’epicità espressa con pochi elementi, ma estremamente efficaci.

La fatica di essere padre

Il recensore si morde le mani per non poter riportare le parole al figlio nella parte finale della narrazione: ma non si può violare il patto con il lettore, non rivelare mai i punti salienti della vicenda.

Posso dire soltanto che non sono avvezzo alla commozione, quando leggo: ma in questo caso mi è accaduto di essere coinvolto in modo totale. E stavolta l’autore non cede del tutto al pessimismo radicale che gli è usuale. La chiave del romanzo è nella sua dedica iniziale: “Questo libro è dedicato a John Francis McCarthy”, il figlio di Cormac, che egli afferma ha avuto un ruolo fondamentale nella scrittura del libro.

Da tempo in letteratura non si affrontava in una dimensione positiva l’elemento di grande fatica della cultura contemporanea, la figura paterna, per lo più assunta come assenza, insufficienza, inadeguatezza. Il padre de “La strada” è ben altro. Nella genealogia dalle implicazioni potenti dei padri e dei figli sta la prospettiva di un mondo da ricostruire: con presupposti diversi da quelli attuali, tentando di spurgarlo di tutto il sangue e l’orrore che sembrano esaurirne i presupposti culturali.

Nel tentativo di difendere il piccolo mondo che si è generato, nella volontà di generare oltre la carne, sta una speranza, esile come i giorni di un bambino, che non si può mai smettere di perseguire. Con tutta la tenacia di cui siamo capaci.

 

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