Il rifiuto della barbarie
Lo raggiungo al telefono mentre si trova in una piccola casa, 400 chilometri a nord di Stoccolma: “Questa casa è stata una piccola scuola, con una sola aula, fino al 1940. Ora ci vengo quando ho bisogno di lavorare tranquillo: 15 gradi sotto zero, 30 centimetri di neve e un lago ghiacciato davanti a me. Il villaggio più vicino è a 15 chilometri, e io non guido. Ma ho un vicino, a due chilometri da qui”, racconta divertito. E poi mi chiede preoccupato dell’Italia e della spaventosa rissosità che ne caratterizza la vita politica. Giuliano Pontara, trentino di origine, professore emerito di Filosofia Pratica all’Università di Stoccolma, è uno dei maggiori esperti del pensiero di Gandhi. Il suo ultimo libro (L’antibarbarie. La concezione etico-politica di Gandhi e il XXI secolo, EGA 2006) costituisce un importante contributo per comprendere gli elementi ancora attuali del pensiero del Mahatma, e proprio da qui vogliamo partire.
Professor Pontara, che cosa rimane attuale nella riflessione e nella prassi gandhiana, a sessant’anni dalla morte?
Gli elementi che a mio vedere sono tutt’ora fondamentali hanno tutti a che fare con la sua concezione pratica della nonviolenza. La sua concezione della nonviolenza va molto oltre la visione tradizionale della nonviolenza occidentale, limitata spesso unicamente al rifiuto delle armi o al pacifismo. In Gandhi la nonviolenza è rifiuto non solo della violenza armata, ma è anche rifiuto di una violenza strutturale connaturata al capitalismo e all’industrialismo sfrenato tipici del mondo attuale, e di tutte le forme di oppressione, in una parola è rifiuto della barbarie. E anche quella che oggi chiameremmo violenza culturale è rifiutata dalla nonviolenza gandhiana, che si oppone alla violenza esercitata dai media quando, invece di dare informazioni, manipolano le coscienze. Bisogna stare attenti, però, a non vedere Gandhi unicamente come un uomo che rifiuta tutto questo punto e basta, perché la nonviolenza si costituisce come una visione del mondo e una prassi fatta di proposte positive. La sua modalità di lotta satyagraha non è semplicemente uno dei tanti metodi di lotta non armata, è una strategia: conduzione e trasformazione dei conflitti con metodi costruttivi e non violenti al fine di realizzare una società sarvodaya o del benessere di tutti. E alla violenza culturale oppone la sua concezione educativa fondata sull’indipendenza della mente e dell’uomo, affermando la necessità di mettere sotto controllo democratico i media a causa dello spaventoso potere che possono esercitare. E questo è molto importante anche per l’oggi.
Recentemente Arundhati Roy, analizzando la situazione dell’India, ha preso una posizione che ha in parte stupito chi ha conosciuto la critica alla guerra espressa nel libro Guerra è Pace, sostenendo che per molti aspetti oggi si deve fare i conti con il fallimento dei tentativi nonviolenti di opporsi ai progetti violenti delle multinazionali nel suo Paese. Siamo davvero in una situazione nella quale il militarismo e il capitalismo selvaggio hanno fatto fallire il modello nonviolento?
Non ho letto quello che Roy ha recentemente scritto sulla situazione in India. Ma una cosa è analizzare la situazione di oggi dicendo che c’è una crisi della nonviolenza, magari a causa della riduzione di persone e movimenti che scelgono di percorrere la strada della nonviolenza. Con questa analisi, che pure ha qualche fondamento, non sono completamente d’accordo. Tutt’altra cosa è sostenere che la nonviolenza ha fallito nel senso che non ha sbocchi, e che dunque bisogna ritornare pur sempre alla lotta armata: ma se fosse così, allora sì che il militarismo e il capitalismo avrebbero vinto, sarebbero riusciti a imporre i loro stessi metodi violenti di lotta. Se in certi contesti la nonviolenza è in crisi, allora direi che è necessario andare a veder bene situazione per situazione, senza soffermarsi unicamente sulle situazioni di fallimento generalizzando il giudizio sulla teoria e la prassi nonviolente a partire unicamente da esse.
Inoltre, opporsi alla violenza con la violenza rischia di essere controproducente, proprio per chi si vuole liberare da essa. In Colombia sono quarant’anni che la FARC e altri movimenti lottano con metodi violenti, ma le cose lì non vanno oggi meglio – e se vanno meglio è perché anche in Colombia sta sorgendo un movimento nonviolento dal basso. Anche nell’attuale fase del conflitto israelo-palestinese le cose non vanno meglio, mentre nel periodo della prima Intifada, dove prevaleva la scelta di lotta non armata, è stato il momento in cui si sono aperte possibilità di dialogo e di politiche costruttive sia per gli israeliani che per i palestinesi.
Ma al di là delle singole situazioni, nelle quali magari il ricorso alla violenza potrebbe essere comprensibile come estrema ratio anche alla luce della riflessione di Gandhi, possiamo dire in generale che il progetto nonviolento ha fallito? La nonviolenza può costituire ancora oggi un orizzonte politico per uscire dalla situazione di barbarie nella quale siamo immersi?
Dobbiamo essere chiari: la via della violenza è la via della sua escalation che finisce in un vicolo cieco. Se continuiamo su quella strada arriviamo a distruggere l’umanità. Questo è il punto di partenza – la grande novità della storia umana esplosa nel 1945.
Quindi possiamo dire che in realtà non ci sono scelte, perché la violenza – nell’era delle armi di distruzione di massa – è una scelta totalmente catastrofica. E allora secondo me siamo costretti, non per virtù, ma per necessità, a imboccare altre strade. O imbocchiamo una strada diversa dalla violenza, per noi, i nostri figli, i nostri nipoti, oppure, se non siamo in grado di fare una scelta nonviolenta, vuol dire che l’umanità non aveva e non ha ragione di esistere. Perché sceglie l’autodistruzione.
Certo, la scelta nonviolenta deve fare i conti con problemi enormi. Ma non dobbiamo dimenticare che anche la scelta violenta comporta enormi problemi. La via della violenza – che da ultimo è la via della guerra – investe somme astronomiche, richiede grandi capacità organizzative e si serve di stuoli di scienziati. Bene, lo stesso vale per la via della nonviolenza: ci vogliono volontà politica, preparazione, organizzazione, mobilitazione dal basso, risorse, denaro, e ricerca scientifica.
Oggi spesso in politica si giustifica l’uso dei mezzi violenti per raggiungere fini che si considerano buoni, presentando questa scelta come una drammatica ma inevitabile necessità. Come valutare questa lettura della responsabilità politica alla luce della nonviolenza di Gandhi?
Credo che il problema vada avvicinato con un’impostazione non moralistica, ma empirica. C’è un nesso profondo, empirico appunto, fra mezzi e fini: dati determinati fini, solo certi mezzi, che già prefigurano quei fini, ci danno garanzia di non allontanarci da quei fini.
È diversa invece l’impostazione del problema quando si dice che, dato un fine buono, l’uso di certi mezzi malvagi giudicati necessari per raggiungerlo può essere giustificato: questo discorso presuppone che il fine buono possa essere raggiunto con mezzi malvagi, cosa che, appunto, l’impostazione empirica della relazione fra mezzi e fini nega.
Oggi però mi sembra che il problema non venga affrontato sul piano empirico: solitamente si ripresenta la contrapposizione fra etica della convinzione e etica della responsabilità, collocando la nonviolenza al livello dell’etica della convinzione e il ricorso alla violenza come male necessario all’interno di un’etica della responsabilità. L’approccio empirico supera la divisione fra etica della convinzione e della responsabilità di stampo weberiano?
Credo di sì! Perché quella impostazione presuppone che in certe condizioni determinati mezzi, implicitamente malvagi, possano servire a raggiungere fini considerati buoni. Ma la coerenza tra fini e mezzi è essenziale. Nel nazismo c’è una coerenza terribile da questo punto di vista: dato il fine violento l’unico mezzo per realizzarlo non può che essere la violenza. Vale esattamente il contrario, ma con la stessa coerenza, per la nonviolenza: se si mira a realizzare una società liberata il più possibile dalla violenza è necessario, non moralmente ma empiricamente, ricorrere a mezzi nonviolenti. Questo discorso vale anche per la democrazia, che è sino a oggi il tipo di sistema politico più vicino alla nonviolenza: un sistema in cui i conflitti vengono condotti e risolti contando le teste, non tagliandole: lo Stato democratico non può che essere mantenuto con mezzi democratici – questo è un trüismo, ma va ricordato. Anche perchè quando le democrazie cominciano a essere esportate con mezzi non democratici, con bombardamenti, forze armate mercenarie e in parte privatizzate, e torture, questi mezzi si ripercuotono all’interno della società democratica, la corrodono, la militarizzano, la rendono più violenta, anche strutturalmente – un processo che è oggi in parte in atto nella società statunitense.
Lei ha spesso richiamato l’importanza del fallibilismo etico. Ma noi siamo in un contesto nel quale sta accadendo esattamente il contrario, con l’accentuazione di posizioni sempre più dogmatiche o addirittura fondamentaliste. Ha un futuro per l’affermazione della nonviolenza il fallibilismo?
Il fallibilismo – inteso come atteggiamento di costante ricerca della verità nella convinzione che nessuno detiene il monopolio di essa – è appunto il contrario del dogmatismo che nutre i movimenti fondamentalisti, sia quelli religiosi sia quelli laici.
Sulle possibilità di tener vivo un atteggiamento fallibilista a volte sono piuttosto pessimista. Anche perché a livello politico dovrebbero essere in primo luogo le società democratiche a tener vivo e incoraggiare tale atteggiamento, dando spazio a più voci, alla ricerca comune (quella che Aldo Capitini chimava la “ricerca corale”) attraverso il dialogo informato tra persone autonome e civili.
Ma le nostre democrazie si stanno indebolendo perché al posto del dialogo subentra la rissa verbale e tanti media – e in primo luogo la TV – stanno letteralmente indottrinando le coscienze, e questa è violenza culturale.
In questo senso il fallibilismo mi sembra in crisi e il rischio è che aumenti la violenza, perché dogmatismo e violenza sono fortemente legati l’uno all’altra. Da una parte quindi ho delle preoccupazioni e forse sono anche un po’ pessimista; dall’altra, ritengo però anche che sia pericoloso abbandonarsi al pessimismo, e quindi cerco di vedere segni di speranza, e colgo questi segni in tutte quelle manifestazioni positive di quella “forza costruttiva” con la quale gli umani nella storia sono riusciti a fare grandi progressi – nonostante la violenza.
Insomma credo che in questa prospettiva sia importante essere intelligentemente, lucidamente ottimisti, ma con i piedi molto, molto per terra. Era anche l’ottimismo intelligente che sosteneva Gandhi nel suo continuo e ininterrotto impegno nella nonviolenza politica.