Nazionalità: rifugiato
Intervisto Magdalena dopo mesi che la conosco: è una donna dalla forza straordinaria, dal carisma e dal coraggio sorprendenti, dalla fede profonda e vitale. Mi fa immaginare gli alberi secolari delle sue amate foreste. Magdalena sa leggere e scrivere pochissimo, ma ha una capacità oratoria di eccelente efficacia. Spero di condividere con voi il significato più importante e il valore più pragmatico delle sue parole: la conoscenza della lotta dei popoli indigeni e neri dell’Honduras.
Perché sei in Italia?
Sono Maria Magdalena Perez Vieda, honduregna del popolo indigeno Tolupan. Sono stata costretta a scappare frettolosamente a causa della violenta persecuzione di cui, nel mio Paese, sono oggetto molti leader indigeni. Sono venuta in Italia, non perchè mi piacesse o l’abbia scelta tra altre possibilità, ma era l’unica via che avevo per salvare la mia vita minacciata e in pericolo.
Ci racconti brevemente la tua storia?
Io rappresento il mio popolo (Tolupan) e, in quanto indigena, ho sempre dovuto confrontarmi con la necessità di difendere il nostro territorio. Ho cominciato a impegnarmi in questa lotta all’età di 12 anni, appena in grado di leggere e scrivere sufficientemente bene. Sono andata avanti, un po’ alla volta, acquisendo coscienza, capacità e il coraggio necessario per non abbandonare, neanche nel maggior pericolo, la difesa dei nostri diritti, della nostra terra, di ciò cui teniamo. Una lotta per la tutela dell’acqua, dei boschi, delle ricchezze che stanno sotto il nostro suolo, ma anche della nostra cultura millenaria, sopravvissuta alla colonizzazione che abbiamo subìto e allo sfruttamento sistematico e violento che, da allora, stiamo ancora subendo. Una lotta che accomuna tutte le popolazioni indigene e nere dell’Honduras.
In questa lotta comunitaria e decennale, si inserisce la mia storia personale. All’inizio ero semplicemente un’indigena e, in quanto tale, già lottatrice. Poi crescendo a livello di organizzazione, fui molte volte rappresentante della mia Tribù, quindi segretaria della Federazione delle Tribù Xicaques di Yoro (Fe.Tri.X.Y) e infine presidente nazionale del Coordinamento Nazionale delle Donne Indigene e Nere dell’Honduras (Co.Na.M.I.N.H.). Fu soprattutto ricoprendo questo ruolo che mi dovetti confrontare con grandi lotte: la denuncia della violazione dei nostri diritti di popolo, la denuncia degli assassini dei nostri compagni indigeni, la denuncia delle violenze su donne e bambine delle nostre comunità, commesse da persone con incarichi pubblici di presunta tutela nei nostri confronti (militari e impresari).
Negli ultimi 3 anni è aumentata la repressione nei confronti del popolo Tolupan a causa della presenza sempre più invasiva (dopo più di 10 anni del Plan Puebla Panama) delle multinazionali sul territorio delle nostre comunità. Si tratta soprattutto di imprese canadesi – come l’Entremares – responsabili di moltri crimini verso il popolo e assassini dei suoi leaders nella zona della Montagna de la Flor per lo sfruttamento delle ricchezze minerarie nel Municipio di Sant’Ignazio e per accaparrare l’acqua necessaria al funzionamento delle miniere stesse. La maggioranza di questi crimini sono tutt’ora impuniti. La situazione precipitò quando altre grandi imprese canadesi entrarono proprio nella mia Tribù – Candelaria – per predare il legname pregiato e accaparrarsi un territorio molto esteso che era già nostro quando nel 1864 abbiamo ottenuto un atto ufficiale di proprietà. Un atto che sancisce la proprietà collettiva della terra alla Tribù Candelaria. Per noi non esiste proprietà privata e quindi la nostra terra non è vendibile! Nè saremmo disposti a venderla! La nostra terra appartiene al popolo. Ma questo status giuridico fa si che gli imprenditori interessati ad acquistare la nostra terra ricorrano ancor più alle minacce e alla violenza per intimorire e indebolire il popolo per farlo cedere a firmare un – seppur improprio – atto di vendita.
Essendo leader della mia comunità, le grandi imprese di allevatori canadesi, vorrebbero obbligarmi a mettere la mia firma su questo atto come garanzia che altri della comunità facciano altrettanto. Dalle parole, in fretta, sono passati ai fatti: il mio rifiuto già costò la vita a molti miei familiari – mio suocero, mia cognata, mio fratello Amadeo, mio nipote e ad altri compagni della Tribù più altre 4 persone che sono morte in questo anno che ho trascorso in Italia, sempre per motivi legati alla lotta di difesa della terra.
Per questo, rifiutata una corruzione con moltissimo denaro, dopo un’ultima minaccia a mano armata, sono stata alla fine costretta a lasciare il Paese. In Honduras ho lasciato quattro figli – di cui la più piccola di neanche 24 mesi che ancora allattavo – e i figli di mio fratello ucciso. Li ho lasciati anche senza papà, perchè già mio marito era stato costretto a scappare due anni fa quando, per minacciare lui, gli uccisero il padre.
Se avessi accettato i soldi con cui hanno provato a corrompermi, forse avrei potuto trasferirmi con tutta la famiglia in qualche altra città dell’Honduras e risparmiare anche a mio figlio l’attentato che gli hanno fatto il mese scorso quando io ero già qui. Ma non sono in Italia per difendere la mia famiglia, perchè non sono, in Honduras, l’unica persona in questa situazione: sono centinaia di donne, di giovani, di madri che hanno perso i propri figli in questa lotta. È un esame di coscienza continuo qui in Italia, un monito permanente, quando lavoro per migliorare le condizioni di sicurezza per la mia famiglia e la mia comunità.
India, di etnia e di cultura: quali sono oggi i principali ostacoli a una vita libera e dignitosa della gente della tua etnia?
In primo luogo, viviamo nella totale insicurezza di vita: tutti i giorni stiamo esposti al pericolo di morte. Di morte per fame. Poi, non siamo liberi sulla nostra terra, non abbiamo più una vita libera come quella di cui abbiamo goduto nei 5000 anni precedenti alla colonizzazione...
Quando ero piccola tutto era libero: oguno poteva correre, uscire, andare a lavorare... non esistevano steccati, non esistevano le guardie, niente che ci impediva il passo. Ma ora sulla nostra terra c’è il filo spinato, c’è un esercito di uomini armati. Di là dal filo di ferro non possiamo entrare perchè ci sparano.
Dicono che rubiamo le loro vacche e tagliamo la loro legna, quando le vacche pascolano dove fino a ieri noi piantavamo il nostro mais e le nostre amate foreste sono per noi fonte di nutrimento, medicinali e spiritualità (non di legname). Dicono che rubiamo l’oro dal fiume, ma cercare l’oro nella sabbia è un lavoro artigianale che facciamo da secoli, e ora nel nostro fiume non possiamo più neanche fare il bagno o il bucato.
Non ci lasciano seminare la terra: da tre anni non seminiamo più le nostre coltivazioni tradizionali, minacciandoci con le armi. Mais e fagioli sono scomparsi dai piatti degli indigeni Tolupan perchè appena ci organizziamo per seminare la terra, qualcuno della nostra gente perde la vita.
Fanno leva sulla paura di morire colpiti da arma da fuoco, ma sappiamo che la nostra gente morirà di fame o di qualche malattia legata alla fame.
La tua gente sperimenta una vera e propria resistenza nonviolenta, pagando di persona il prezzo. In cosa consiste la vostra lotta nonviolenta? Quali sono gli obiettivi e quali i mezzi scelti?
La lotta dei nostri popoli indigeni e neri è una resistenza al mantenimento della nostra terra dei nostri usi e costumi, del nostro cibo, dei nostri abiti tipici, delle nostre medicine, della nostra lingua, della nostra spiritualità, del nostro rapporto ancestrale con la natura. Lo strumento principale della nostra lotta è l’unità e la solidarietà tra popoli indigeni e neri del Paese che si stanno organizzando da ormai 25 anni: facendosi forza e coraggio tra i leaders delle diverse comunità, condividendo esperienze, sviluppando una strategia sociale e politica comune attraverso regolamenti interni ai nostri popoli, organizzandoci in reti e federazioni a livello nazionale e mettendoci poi in relazione con altri popoli indigeni di altri Stati del Centro America.
Questa lotta di resistenza nonviolenta ha un costo. Proprio oggi, 30 settembre, ricorrono i 16 anni del brutale assassinio di Vincente Matute, primo dirigente della nostra Fe.Tri.X.Y e primo presidente della Con.P.A.H (Confederación de pueblos autóctonos de Honduras), la prima persona che con grande coraggio iniziò a organizzare gli indigeni del Centro America. Dietro di lui, in questi anni, una lunga lista di lutti da cui, per il momento, mi sto salvando grazie all’accoglienza e all’interesse che mi state offrendo qui.