Questione morale
Quando i ritardi e i malfunzionamenti della giustizia annientano il lavoro per la verità.
In Italia il sistema giudiziario funziona molto male. Ma attenzione: a qualcuno dà fastidio anche quel poco che c’è di giustizia. Per convincersene basta constatare che l’obiettivo di chi attacca la giurisdizione è di avere non più, ma meno giustizia. Perché meno giustizia significa meno pericoli per gli interessi che vuol proteggere. Così, se un uomo politico è indagato per un qualche reato, in Italia – ormai – la regola è accusare il magistrato che indaga di essere lui a fare… politica. Con l’inevitabile corollario che la magistratura dovrebbe fare un passo indietro e smetterla di esorbitare dai suoi limiti. Un ribaltamento della verità che si intreccia con l’accantonamento, di fatto, della questione morale. Che non è affatto una pruderie di benpensanti, ma una grande questione democratica e istituzionale. Per la decisiva ragione che un sistema intriso di illegalità (in particolare di corruzione e di rapporti con la mafia) è l’emblema del prevalere dell’interesse privato su quello pubblico.
L’accantonamento della questione morale è diventato – nella seconda Repubblica (e ancora oggi) – vera e propria rimozione. Le dimissioni da incarichi pubblici, per chi sia coinvolto in inchieste o addirittura condannato per gravi reati, sono assolutamente desuete. E nei programmi elettorali sia del centrosinistra che del centrodestra dell’ultima consultazione politica è praticamente scomparsa l’evocazione di ogni questione posta dal rapporto fra etica e politica. Ora, è vero che Machiavelli ci ha insegnato che gli Stati non si governano con i paternoster. Ma più che del suo pensiero, dovremmo essere figli del pensiero di Norberto Bobbio, secondo cui la corruzione è sempre priva di qualunque giustificazione politica. E come il tiranno resta tiranno, così il corrotto resta corrotto, quali che siano il successo, il consenso elettorale o le comparsate televisive di cui gode.
La questione morale, ovviamente, non sfiora neppure coloro che intrattengono abitualmente rapporti d’affari o di scambio con mafiosi. E sono tanti: politici, amministratori, imprenditori, operatori economici; con frequente predilezione per il settore della sanità… Che dopo le terribili stragi del 1992/93 ci siano ancora personaggi che vivono e operano nel mondo “legale” (talora con responsabilità istituzionali di rilievo), disposti a trescare con mafiosi e/o paramafiosi come se niente fosse, con assoluta “normalità”, è una vergogna che dovrebbe far rizzare i capelli a tutti.
Tutti dovrebbero reagire all’istante, non appena accertati questi comportamenti. Invece ci si abitua, ci si anestetizza. Quelli che si indignano sono sempre di meno (mentre chi viene colto con le mani nel sacco può sempre sperare nella solidarietà dei suoi capi cordata, sia locali che nazionali). Ci si convince che così va il mondo.
Questione morale e responsabilità politica sono reperti archeologici, favole per i gonzi.
Una certa politica, in Italia, tende ad autoassolversi in perpetuo. Questa tendenza, oggi, si esprime con la deliberata confusione fra assoluzione e prescrizione. Se un eminentissimo uomo politico che ha avuto altissime responsabilità di governo (non interessa tanto il nome) viene riconosciuto colpevole – in una sentenza definitiva della Corte di Cassazione – del delitto di associazione a delinquere con Cosa Nostra per averlo commesso (una prova dopo l’altra) fino al 1980; se l’imputato si salva dalla condanna sol perché il reato commesso risulta prescritto; se a fronte di una sentenza del genere io parlo di assoluzione, non commetto soltanto un errore dal punto di vista tecnico-giuridico: finisco per sbianchettare tutto ciò che di gravissimo in questa sentenza sta scritto. Ma cancellandolo, legittimo in realtà un certo modo di fare politica, che contempla anche rapporti organici con la mafia. E legittimandolo per il passato, finisco per legittimarlo per il presente e magari pure per il futuro.
Gira e rigira, questo è il problema della questione morale.